13 Ago 21

Urbanistica, la cultura dello scarto

Da oltre un anno e mezzo urbanisti e docenti spiegano perché la pandemia ha sbriciolato i vecchi approcci, il cui modello società/economia/città di fatto non esiste più. Pandemia non pandemia, ci sono i cambiamenti climatici, è cambiato il mercato, la famiglia tradizionale non esiste più. L’ambiente è stato solo il perimetro senza vita entro il quale calare case, cemento, insediamenti industriali e commerciali, periferie e palazzine, il modello vedeva l’unico futuro possibile nella crescita della produzione e dei consumi. L’ambiente e il verde, solo per produrre cibo e offrire svago.

Ma possiamo ancora impostare pianificazioni urbanistiche di questo tipo?

Dove il modello è quello della famiglia tradizionale col papà che lavora, i quartieri abitati dallo stesso genere di famiglie che praticano un buon vicinato come negli anni sessanta, gli agricoltori in campagna, ben distinti dalle città, con gli impiegati che hanno gli stessi orari e gli operai nelle fabbriche pure, nelle zone industriali, che a sera negli stessi orari tornano nei loro quartieri.

Città, ci ricordano oggi docenti ed urbanisti, non ancora densamente abitate e pensate per giovani, sani, lavoratori, con tutta la vita davanti senza spazi pianificati e pensati per anziani e fragilità, relegati invece ai margini. La cultura dello scarto che ancora comanda.

La pandemia con i cambiamenti climatici ha messo in crisi questo sistema, con le stragi nelle case di riposo, gli spazi per niente pensati per lo smart working, l’ambiente intorno ignorato, le metropoli, formicai da abbandonare per borghi e città medie, più vivibili, più sane, più a misura d’uomo, che d’altra parte scontano un sistema pianificatorio e sociale che le ha lasciate indietro, spopolate, senza banda larga, senza giovani fuggiti nelle metropoli in cerca di lavori ben remunerati.

La città tradizionale non esiste più, non c’è più l’idea di un progetto di vita stabile e di futuro prevedibile e non esistono più i modelli urbanistici calati dall’alto, la pianificazione dovrebbe avere tanti attori, tanti poteri decisionali, tanti ascolti della gente, tanto dal basso e non solo.

Il piano non è più statico è in divenire, contempla l’ambiente e contempla la figura della donna, della mamma che lavora, dei servizi sociali molto ben attrezzati per i bimbi, per gli anziani, per le fragilità integrate in contesti unici eliminando le marginalità. E’ soprattutto qualcosa che sa cosa vuole raggiungere ma lo fa a tappe intermedie ed è capace di aggiustare il tiro, dunque come possiamo ancora concepire oggi l’idea di un piano che definisce più o meno per sempre la destinazione di un suolo ancora come cinquant’anni fa? Ignorando peraltro l’urgenza della rigenerazione urbana con quello che abbiamo evitando di continuare, sul serio, a mangiare suoli.

Si parla di sviluppo dei Piani dei tempi e degli orari, sperimentati in Lombardia. Il tempo è un bene sempre più prezioso da conservare, utilizzare e far combaciare con le tante realtà dinamiche di urbanismi da ripensare perché le diverse realtà devono dialogare, rispettarsi, integrarsi, recuperare una qualità di vita possibile. Con impatti ambientali sostenibili in ogni parte della città.

I rapporti sociali ed economici sono cambiati, devono cambiare gli spazi.

Torneremo con la didattica in presenza, anche il pubblico impiego tornerà in ufficio ma non abbiamo ancora capito come utilizzare tempi diversi per decongestionare i mezzi pubblici e come stimolare l’uso del mezzo pubblico per limitare quello privato. Secondo alcuni urbanisti innovatori bisognerebbe ridurre la cementificazione in proprio di parcheggi per ipermercati, stadi o centri direzionali, ripensandone un uso a rotazione, ma fin quando non recupereremo un minimo di idea di comunità, di condivisione, e di rispetto del vicino e del concittadino sarà tutto bello ma assolutamente irrealistico. Forse è proprio da una nuova idea di comunità/socialità che si dovrebbe ripartire per ottenere un qualche risultato, ma il passo culturale è talmente gigantesco che non è ancora arrivato il tempo. Nonostante una pandemia che pure, ha rimesso in discussione le individualità, a favore di salute e  collettività.