15 Giu 23

Silvio Berlusconi, la necessità del lutto

Come tutti i leader narcisisti Berlusconi non ha allevato successori in casa, lascia un paese che sotto la sua egemonia luccicante ha imboccato trent’anni fa una via del declino senza ritorno, una politica stravolta nella grammatica e nella sintassi, un’informazione definitivamente trasformata nei contenuti e nel linguaggio, una giustizia perennemente sotto attacco, una società modificata nel corpo e nell’anima, ma soprattutto lascia sottotraccia quell’identificazione inconscia nella maschera di una potenza che copre l’impotenza, un’identificazione depressiva che continua ad ammutolire la protesta sociale e a fare la fortuna di leader inventati, votati non per quello che sanno fare ma per come riescono a nascondere quello che non sanno o non possono fare. Elaborare il lutto della fine di Berlusconi significa farla finita con questa identificazione depressiva, e voltare finalmente pagina.

E’ un primo stralcio tratto dall’approfondimento di Ida Dominijanni, pubblicato su Internazionale, che ben inquadra il momento e la figura di Silvio Berlusconi, scomparso il 12 giugno scorso all’età di 86 anni, che continua a tenere banco. 

Sono sacrosante le ragioni di chi rifiuta il lutto, ma più importante a me sembra che un lutto, finalmente, si faccia, scrive l’autrice. L’uomo Berlusconi muore adesso, ma il politico era finito nel 2011 ed era finito senza alcun lutto, e anche per questo politicamente non era stato sepolto ed era sopravvissuto a se stesso per più di dieci anni: il passaggio dello scettro da Berlusconi a Monti , disposto nel 2011 dal Quirinale evitando il rito elettorale, garantì allora una transizione passiva dal carnevale del godimento alla quaresima dell’austerity, senza elaborazione di ciò che finiva e ciò che cominciava o di ciò che del passato rimaneva nel presente e nel futuro.

L’impronta di Berlusconi permane granitica, sull’intero catalogo delle forme dell’agire pubblico che con lui e dopo di lui si sono imposte sulla crisi senza ritorno della democrazia rappresentativa e partecipativa. Il partito personale e la personalizzazione della leadership, la mediatizzazione del discorso politico e la trasformazione dell’agorà democratica in arena televisiva, l’appello al popolo senza intermediazioni come cifra del populismo, l’identificazione tra il popolo e il capo e la democrazia dell’applauso, l’intreccio tra biografia personale, interessi patrimoniali privati ​​ed esercizio della funzione pubblica disegnano la fenomenologia di una decomposizione della politica e di una deformazione della democrazia che dilagano ormai su scala planetaria, e che nel berlusconismo hanno trovato un laboratorio anticipatore e a suo modo, occorre riconoscerlo, geniale, a fronte di una sinistra distratta, nel peggiore dei casi complice e nel migliore attardata su schemi culturali usurati.

E tuttavia, quando parliamo di berlusconismo, ognuno/a di noi sa che parliamo anche di qualcos’altro, di un nocciolo che rimane per molti versi insondato, che ha sedotto e plasmato la società italiana e attorno al quale si annoda tuttora il rapporto tra l’immaginario collettivo e lo spettro di un leader da tempo finito eppure tuttora incombente. Per mettere a fuoco questo nocciolo è mancato a lungo, e tuttora manca, la giusta distanza, in una società divisa verticalmente tra l’ammirazione prona e il disprezzo altero nei confronti di Berlusconi.

Se dall’imponente bibliografia sul Cavaliere si sottraggono i troppi titoli che la riduzione a colore e folklore, tre sono gli approcci critici più ricorrenti. Il primo imputa a Berlusconi la sua radicale anomalia, conflitto d’interessi, leggi ad personam, attacchi reiterati alla Costituzione; il secondo insiste giustamente sulla potenza dell’impero televisivo nella costruzione del consenso politico; il terzo punta il dito sullo sfondamento della proposta berlusconiana nel blocco sociale nato sulle ceneri del fordismo, dalla piccola impresa alle partite iva, e privo di ascolto e rappresentanza a sinistra, ma non spiega come questo radicamento originario si sia immediatamente trasformato in un consenso trasversale, nazionale e interclassista,

L’icona di Berlusconi acquista il profilo più preciso e più inquietante di un leader post-edipico e post-patriarcale, che non incarna la legge ma il godimento e la trasgressione, e che tenta di ripristinare il ruolo perduto di una virilità vacillante seducendo le donne con l’arma ricattatoria del potere e della ricchezza. Uno specchio riflettente ideale per un paese che con la legalità ha sempre avuto un problema e che con la libertà femminile non ha mai fatto i conti.

Lungi dall’essere l’incidente di percorso secondario cui fu ridotto all’epoca e cui tuttora il coro celebrativo post mortem di Berlusconi tenta di ridurlo, il sexgate fu l’imprevisto che squarciò il velo del sistema, e per giunta all’indomani del tentativo più riuscito di Berlusconi di legittimarsi, col celebre discorso di Onna, all’Aquila, come padre della patria. Sotto quel velo squarciato non c’era un padre della patria, c’era il papi delle “cene eleganti”.

Il re era nudo, a denudarlo erano state le sue stesse donne, la moglie e la favorita in sequenza, ea dichiarare la sua parabola furono conclusi le centinaia di migliaia di donne scese in piazza per dire basta, ben prima che i leader europei, approfittando della sua ormai acclarata vulnerabilità, inchiodassero l’ex premier alle sue responsabilità sul debito pubblico italiano e sullo spread.

Sono sacrosante le ragioni di chi rifiuta il lutto, ma più importante a me sembra che un lutto, finalmente, si faccia. L’uomo Berlusconi muore adesso, ma il politico era finito nel 2011 ed era finito senza alcun lutto, e anche per questo politicamente non era stato sepolto ed era sopravvissuto a se stesso per più di dieci anni: il passaggio dello scettro da Berlusconi a Monti , disposto nel 2011 dal Quirinale evitando il rito elettorale, garantì allora una transizione passiva dal carnevale del godimento alla quaresima dell’austerity, senza elaborazione di ciò che finiva e ciò che cominciava o di ciò che del passato rimaneva nel presente e nel futuro.

 

*Dopo Berlusconi. Il lutto che resta da fare, di Ida Dominijanni