20 Feb 19

Vogliamo il pane, ma anche le rose

Stamattina sono uscito con il mio cane per la solita passeggiata.
Kiki è talmente viziata che nelle gelide mattinate invernali ronfa fino a tardi mentre, ora che il sole è più caldo, alle prime luci è già arzilla e si bulleggia per farmi alzare dal letto.
Tempo di fare un caffè e sgattaioliamo fuori dal portone incamminandoci senza una meta precisa ma solitamente verso i posti più assolati della città, piazza Duomo ad esempio.
A quell’ora il centro è ancora morto di sonno, solo verso le nove, nove e mezza, i negozi cominciano ad aprire, mentre bar e cantieri sono già operativi da un pezzo.
Gli operai salutano sempre, buongiorno, salve, ciao, a volte se sono in un momento più tranquillo scambiano due parole, fanno due feste a Kiki e raccontano del loro cane.
I tecnici della ricostruzione sono meno generosi con le parole, forse troppo affaccendati tra pensieri, appuntamenti e telefonate.
Kiki in centro conosce tutti e saluta tutti, la sua è pura ruffianeria, ci guadagna un biscottino al Bar del Corso o una carezza dal tabaccaio salendo sulle due zampe per farsi salutare da dietro il bancone.
Anche i pensionati, i pochi che frequentano ancora il centro, salutano, chiedono come sta papà, hanno sempre quell’ironia beffarda degli aquilani di una volta per i quali ho sempre provato un amore diffidente, anche a settant’anni hanno ancora quell’aria da bricconi che non sai mai se ti stanno prendendo giro o meno. Tuttavia nascondono dietro quest’epica popolaresca una grande cultura, e se li conosci li scopri all’improvviso maestri della lingua e della penna, dell’arte o della letteratura, provetti poeti o restauratori.
Cresciuti spesso e volentieri nelle case fradice del centro, che oggi spacciamo per loft extralusso, hanno sempre cercato di apprendere quanto potevano dalle frequentazioni piccolo borghesi che la città capoluogo, quasi completamente raccolta nelle mura, e accademica offriva loro, imparando al contempo l’arte di diffidare e ostentare una profonda ignoranza quando la vera borghesia cercava di trasformare la cultura in status.
E del resto anche i maestri di questa città non disdegnavano affatto passare il tempo con loro in quei bar, nelle cantine, nelle locande che all’epoca erano non luoghi di esclusione, ma di incontro di mondi e persone diverse. Non deve essere un caso che all’Aquila la cultura sia proliferata proprio in quell’epoca, quando chi aveva l’arte decise di metterla a disposizione delle istanze di progresso che crescevano in città. Chissà che ne pensano dello spettacolino cui assistiamo in questi giorni, non certo per la prima volta.
La maggioranza sembra molto affaccendata a regolare vecchie e nuove faide interne, la ringalluzzita opposizione è pronta ad infilarsi in ogni crepa, la cultura è un fatto mondano per nobildonne e cicisbei.
La domanda sorge spontanea? Ma a noi che ce ne frega?
La cultura è una cosa seria, vorrebbe mangiarci tutta la città, se non nutrirci la famiglia almeno lo spirito, quello sì. Sarebbe bello sentire il partito di chi ce l’ha fatta confrontarsi su questo.

 

*di Alessio Ludovici