13 Gen 23

L’Italia post-populista e malinconica

La società italiana entra nel ciclo del post-populismo. Alle vulnerabilità economiche e sociali strutturali, di lungo periodo, si aggiungono adesso gli effetti deleteri delle quattro crisi sovrapposte dell’ultimo triennio: la pandemia perdurante, la guerra cruenta alle porte dell’Europa, l’alta inflazione, la morsa energetica.
E la paura straniante di essere esposti a rischi globali incontrollabili.
Da questo quadro profondamente mutato emerge una rinnovata domanda di prospettive di benessere e si levano autentiche istanze di equità che non sono più liquidabili semplicisticamente come ‘populiste’, come fossero aspettative irrealistiche fomentate da qualche leader politico demagogico.
La quasi totalità degli italiani (il 92,7%) è convinta che l’impennata dell’inflazione durerà a lungo, il 76,4% ritiene che non potrà contare su aumenti significativi delle entrate familiari, il 69,3% teme che il proprio tenore di vita si abbasserà (e la percentuale sale al 79,3% tra le persone che già detengono redditi bassi), il 64,4% sta intaccando i risparmi per fronteggiare l’inflazione. Cresce perciò la ripulsa verso privilegi oggi ritenuti odiosi, con effetti sideralmente divisivi: per l’87,8% sono insopportabili le differenze eccessive tra le retribuzioni dei dipendenti e quelle dei dirigenti, per l’86,6% le buonuscite milionarie dei manager, per l’84,1% le tasse troppo esigue pagate dai giganti del web, per l’81,5% i facili guadagni degli influencer, per il 78,7% gli sprechi per le feste delle celebrities, per il 73,5% l’uso dei jet privati. Ma non si registrano fiammate conflittuali, intense mobilitazioni collettive attraverso scioperi, manifestazioni di piazza o cortei. Si manifesta invece una ritrazione silenziosa dei cittadini perduti della Repubblica.

Alle ultime elezioni il primo partito è stato quello dei non votanti, composto da astenuti, schede bianche e nulle, che ha segnato un record e una profonda cicatrice nella storia repubblicana: quasi 18 milioni di persone, pari al 39% degli aventi diritto. In 12 province i non votanti hanno superato il 50%. Tra le politiche del 2006 e quelle del 2022 i non votanti sono raddoppiati (+102,6%), tra il 2018 e il 2022 sono aumentati del 31,2% (quasi 4,3 milioni in più). Per porzioni crescenti dei ceti popolari e della classe media il tradizionale intreccio lineare «lavoro-benessere economico-democrazia» non funziona più.

Nella Pubblica amministrazione, si conta un dirigente ogni 16 dipendenti pubblici. Si nota però un progressivo invecchiamento. Nonostante sia ancora residuale la quota di cittadini che ritengono che la Pa funzioni molto bene (il 3,4%), è aumentata la quota di quanti si dichiarano parzialmente soddisfatti (il 40,2%). Ma oltre la metà degli italiani (il 51,5%) si dichiara ancora insoddisfatta. I principali motivi che causano il cattivo funzionamento della Pa, secondo i cittadini insoddisfatti, sono l’eccesso di burocrazia (31,4%), la scarsa motivazione del personale (29,2%), la cattiva organizzazione (17,5%) e l’interferenza della politica nelle nomine dei dirigenti (12,9%). Il 6,3% degli insoddisfatti indica come motivo principale del cattivo funzionamento della Pa il ricorso ancora limitato alle tecnologie digitali.

Il 66,5% degli italiani (10 punti percentuali in più rispetto al 2019 pre-Covid) si sente insicuro. I principali rischi globali percepiti sono: per il 46,2% la guerra, per il 45,0% la crisi economica, per il 37,7% virus letali e nuove minacce biologiche alla salute, per il 26,6% l’instabilità dei mercati internazionali (dalla scarsità delle materie prime al boom dei prezzi dell’energia), per il 24,5% gli eventi atmosferici catastrofici (temperature torride e precipitazioni intense), per il 9,4% gli attacchi informatici su vasta scala.

I meccanismi proiettivi tipici di una rampante società dei consumi, che in passato spingevano le persone a fare sacrifici per modernizzarsi, arricchirsi e imbellirsi, hanno perso presa e capacità di orientare i comportamenti collettivi. Prevale piuttosto la voglia di essere se stessi, con i propri limiti. Gli italiani non sono più disposti a fare sacrifici: l’83,2% per mettere in pratica le indicazioni di qualche influencer, l’81,5% per vestirsi secondo i canoni della moda, il 70,5% per acquistare prodotti di prestigio, il 63,5% per sembrare più giovani, il 58,7% per sentirsi più belli. E il 36,4% non è disposto a sacrificarsi per fare carriera nel lavoro e guadagnare di più. Complessivamente, 8 italiani su 10 affermano di non avere voglia di fare sacrifici per cambiare, diventare altro da sé. È l’astuzia operativa della soggettività che, nel flusso degli eventi inattesi degli ultimi anni, adesso esprime una inedita impermeabilità ai miti proiettivi, che può tracimare nell’esplicita rinuncia all’autopromozione individuale. Il bilancio? L’89,7% degli italiani dichiara che, pensando alla sequenza di pandemia, guerra e crisi ambientale, prova tristezza, e il 54,1% ha la forte tentazione di restare passivo. È la malinconia a definire oggi il carattere degli italiani, il sentimento proprio del nichilismo dei nostri tempi.

Al vertice delle insicurezze personali degli italiani, per il 53,0% c’è il rischio di non autosufficienza e invalidità, il 51,7% teme di rimanere vittima di reati, il 47,7% non è sicuro di poter contare su redditi sufficienti in vecchiaia, il 47,6% ha paura di perdere il lavoro e quindi di andare incontro a difficoltà economiche, il 43,3% teme di incorrere in incidenti o infortuni sul lavoro, il 42,1% di dover pagare di tasca propria prestazioni sanitarie impreviste. Eppure, nell’ultimo decennio i reati denunciati in Italia si sono ridotti complessivamente del 25,4%. Oggi siamo il Paese statisticamente più sicuro di sempre. I crimini più efferati, gli omicidi volontari, sono diminuiti dai 528 del 2012 ai 304 del 2021 (-42,4%). E sono in forte contrazione i principali fenomeni di criminalità predatoria: in dieci anni le rapine sono diminuite da 42.631 a 22.093 (-48,2%), i furti nelle abitazioni da 237.355 a 124.715 (-47,5%), i furti di autoveicoli da 195.353 a 109.907 (-43,7%). Nell’ultimo decennio sono aumentate solo alcune fattispecie di reato: le violenze sessuali (4.689 nel 2012, 5.274 nel 2021: +12,5%), le estorsioni (+55,2%), le truffe informatiche (+152,3%).

La mappa delle nuove fragilità sociali contempla innanzitutto le famiglie che vivono in condizione di povertà assoluta: sono più di 1,9 milioni (il 7,5% del totale), cioè 5,6 milioni di persone (il 9,4% della popolazione: 1 milione di persone in più rispetto al 2019). Di queste, il 44,1% risiede nel Mezzogiorno. I giovani 18-24enni usciti precocemente dal sistema di istruzione e formazione sono il 12,7% a livello nazionale e il 16,6% nelle regioni del Sud, contro una media europea di dispersione scolastica che si ferma al 9,7%. Mediamente nei Paesi dell’Unione europea la quota di 25-34enni con il diploma è pari all’85,2%, in Italia al 76,8% e scende al 71,2% nel Mezzogiorno. È inferiore alla media europea anche la percentuale di 30-34enni laureati o in possesso di un titolo di studio terziario: il 26,8% in Italia e il 20,7% al Sud, contro una media Ue del 41,6%. Il nostro Paese detiene anche il primato europeo per il numero di Neet, i giovani che non studiano e non lavorano: il 23,1% dei 15-29enni a fronte di una media Ue del 13,1%. Nelle Regioni del Mezzogiorno l’incidenza sale al 32,2%.

Negli ultimi cinque anni gli alunni delle scuole sono diminuiti da 8,6 milioni a 8,2 milioni: -4,7% (403.356 in meno). L’onda negativa della dinamica demografica è particolarmente evidente nella scuola dell’infanzia (-11,5% nei cinque anni) e nella scuola primaria (-8,3%). Anche nelle università nell’anno accademico 2021-22 si assiste a una brusca contrazione del numero delle immatricolazioni: -2,8% rispetto all’anno precedente (9.400 studenti in meno). In base alle previsioni demografiche, si prefigurano aule scolastiche desertificate e un bacino universitario depauperato. Già tra dieci anni la popolazione di 3-18 anni scenderà dagli attuali 8,5 milioni a 7,1 milioni, e nel 2042 potrebbe ridursi a 6,8 milioni (1,7 milioni in meno rispetto al 2022). Lo tsunami demografico investirà prima la scuola primaria e la secondaria di primo grado, con un decremento, rispetto a oggi, di quasi 900.000 persone di 6-13 anni nel 2032, per arrivare nel decennio successivo a colpire duramente la scuola secondaria di secondo grado: 726.000 ragazzi di 14-18 anni in meno rispetto al 2022. Tra vent’anni, nel 2042, la popolazione 19-24enne avrà subito un calo di quasi 760.000 persone rispetto a oggi: a parità di propensione agli studi universitari, si conterebbero 390.000 iscritti e 78.000 immatricolati in meno rispetto a oggi (e attualmente gli studenti stranieri sono appena il 5,5% degli iscritti all’università).


*da ‘La società italiana al 2022’ del 56° Rapporto Censis