Agli occhi della classe dirigente italiana ciò che veramente conta per entrare nei giri dell’establishment economico sono, nell’ordine, le relazioni, cioè la conoscenza di persone influenti, la cooptazione, le raccomandazioni, la notorietà, la visibilità e il reddito. Nella scala dei valori, la visione strategica e la capacità di anticipare e affrontare i problemi, vengono dopo l’utilitarismo, la ricerca di obiettivi e di relazioni personali, la ricchezza.
Così Antonio Galdo su Il Sole24ore raccontava qualche giorno fa del sociologo Nadio Delai, direttore generale del Censis dal 1984 al 1993, e curatore per diversi anni del Rapporto Luiss sulla classe dirigente italiana.
È il quadro di una classe dirigente che non ha orgoglio, riporta Delai, senso della collettività e del bene comune. Una classe dirigente che non vuole responsabilità oltre la specifica funzione ricoperta, espressione di una ‘società delle conoscenze’ più che di una ‘società della conoscenza’.
Dopo gli anni del boom economico, con il taglio del traguardo del benessere accompagnato dal dilagare di una società di ceto medio, si è andato sempre più accentuando un fenomeno di abdicazione di quella élite, tipicamente borghese, che sente una responsabilità collettiva, se ne fa carico, e guida, sulla base di interessi generali e non solo di pulsioni particolari, l’intero sistema. Si è creato un vuoto, scrive Galdo nel suo articolo sul quotidiano economico. E interi settori dell’economia, dalle aziende alle banche, dal terziario alle professioni, non hanno più espresso classe dirigente all’altezza della funzione che le spetta, ma solo pezzi di establishment dedicati, legittimamente, al guadagno, alla carriera e al successo individuale.
L’impietoso giudizio di Giuliano Amato è una sintesi efficace del punto di crisi nel quale ancora ci troviamo: ‘Viviamo nel peccato originale di una borghesia che non ha riconosciuto come suo il problema dello Stato e lo ha lasciato nelle mani dei figli dei poveri’.
Quando, agli inizi degli anni Novanta, è stata smantellata la grande industria pubblica, sono stati liquidati anche i luoghi privilegiati dove si formava la classe dirigente economica: i Centri studi. Racconta l’economista Giulio Sapelli, che ha lavorato nella formazione in grandi gruppi come Eni, Olivetti, UniCredit: ‘È stata una scelta sciagurata che ha privato l’Italia di serbatoi dove sono state allevate generazioni di dirigenti, che maturavano non solo attraverso i numeri e la teoria, ma innanzitutto con la pratica del lavoro sul campo e con una visione di lungo periodo, non circoscritta ai risultati di una trimestrale da presentare al mercato. Per il futuro, dovremmo ripartire da qui: un buon manager si forma con un mix di cultura umanistica e scientifica, e con l’attività in azienda. Oggi abbiamo troppi, inutili master, e poche letture di grandi romanzi universali’.
Antonio Galdo ne Gli sbandati La nuova classe dirigente e le scuole del potere, edito dal Sole24ore, racconta di una classe dirigente liquida e poco preparata che fa carriera su Internet, una classe dirigente di Sbandati, dei quali facciamo fatica a capire da dove vengono e dove vanno, al di là degli slogan recitati senza pause. Dopo anni di impoverimento e di decadenza, scrive ancora Galdo, in Italia arrivano risorse che valgono sette volte quelle del Piano Marshall alla fine della Seconda guerra mondiale. Tuttavia i soldi non bastano. Oltre alla benzina serve chi guida la macchina e la scuola giusta dove si possa prendere la patente.
Ma ad oggi abbiamo dissipato il nostro bel patrimonio culturale e socio-economico dove attingere e siamo costretti a ripiegare sui tecnocrati, lontani anni luce, dal fare politica nel senso perduto ma più bello e rispettabile del termine.