03 Apr 23

Politica e cultura, fine degli intellettuali

Non ho un’idea precisa su quale debba essere il rapporto tra politica e intellettuali, né credo sia giusto averne una. Quando ho iniziato a riflettere su questo tema, qualche tempo fa, condividevo con la mia e con le generazioni precedenti alla mia una concezione molto tradizionale dell’intellettuale: impegnato, autorevole, ascoltato, rispettato, quasi sacralizzato. Mi ero messo in testa di comprendere cosa fosse successo in questi ultimi trent’anni, perché mai quell’intellettuale che avevo fatto in tempo a conoscere al momento della mia formazione culturale e politica fosse scomparso dalla scena pubblica, perché mai la politica, diversamente da quanto accadeva ancora negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, avesse smesso di interrogare la sua sapienza, avesse rinunciato ad appellarsi alla sua autorevolezza e avesse anzi adottato nei suoi confronti un atteggiamento distaccato e sprezzante. Mi chiedevo, non senza un po’ di nostalgia, come si potesse ricostruire un rapporto che reputavo fondamentale, quasi imprescindibile, per la forza della nostra democrazia. Ho terminato la scrittura di questo libro con la consapevolezza che la figura che avevo impressa nella mente non esiste più, che essa si è trasformata in qualcosa di molto diverso, come in qualcosa di molto diverso si è trasformata, in questi anni, la politica. Che non si tratta perciò di rimettere insieme i pezzi di un modellino andato in frantumi, quale che fosse, bensì di comprendere appieno ciò che è accaduto nell’ultimo trentennio, di mettere a fuoco ciò che appare oggi, al mio sguardo retrospettivo, come un punto di non ritorno, un momento di radicale svolta, in una storia più che centenaria.

Giorgio Caravale

Nelle pagine che seguono cerco di mettere a fuoco le cause del crescente discredito che ha investito, in modi diversi ma non slegati tra loro, le figure del politico e dell’intellettuale. Mi soffermo su una stagione storica in cui l’«età dell’incompetenza» ha fatto da sfondo a una politica sempre più aliena da un’approfondita elaborazione culturale e a un ceto intellettuale sempre più chiuso in sé stesso, disinteressato alla politica quando non esplicitamente infastidito dalle sue dinamiche. 

Non so cosa succederà in futuro. È possibile, direi anche auspicabile, che i politici riscoprano meccanismi di selezione e formazione della classe dirigente in grado di restituire loro competenza e autorevolezza. Può darsi che gli intellettuali diventeranno meno vanesi, più concreti, e può darsi che, in questo modo, riacquisteranno un po’ del credito perduto. Può darsi, infine, che politica e cultura, imparando a rispettare maggiormente l’autonomia l’una dell’altra, riusciranno a ricostruire un rapporto oggi inesistente. Sono convinto però che la definitiva archiviazione della stagione ricostruita in queste pagine non passi per il lamento sul presente né tantomeno per il rimpianto dei tempi andati. Solo prendendo sul serio il trentennio appena conclusosi, solo comprendendo appieno la svolta maturata in questo tornante di inizio millennio, potremo autorizzarci a pensare modalità nuove di dialogo e collaborazione tra politica e società civile e, dunque, tra politica e intellettuali.

*Senza intellettuali
Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni
Giorgio Caravale
Introduzione tratta da laterza.it

 

I.

Una politica senza intellettuali
1. La crisi del modello gramsciano

Nel marzo 1997, pochi mesi dopo la vittoria elettorale dell’Ulivo di Prodi contro il Polo per le Libertà di Silvio Berlusconi, i vertici del centrosinistra organizzarono un incontro presso il castello di Gargonza per infrangere il muro che divideva ormai da tempo politica e mondo della cultura: una settantina di politici (ministri, sottosegretari, segretari di partito, capigruppo della maggioranza, scelti per lo più in ragione dell’incarico istituzionale da loro ricoperto) si riunirono per tre giorni in conclave insieme a una cinquantina di intellettuali selezionati per l’occasione dal sociologo Omar Calabrese.

Già storditi dagli stravolgimenti che avevano accompagnato il crollo del comunismo e la svolta della Bolognina, gli intellettuali di sinistra erano rimasti pietrificati dal protagonismo del proprietario di Mediaset, la discesa in campo di Berlusconi e la sua repentina vittoria elettorale avevano congelato la sinistra intellettuale in un atteggiamento pretenziosamente aristocratico le cui radici affondavano nel disdegno per lo spirito «vacuo ed effimero» della cultura televisiva e nell’incapacità di abbandonare un modello culturale limitato alla critica dell’esistente. Una miscela di autoreferenzialità e massimalismo aveva così cristallizzato nell’opinione pubblica l’immagine dell’intellettuale settario e intollerante intorno alla quale il leader di Forza Italia consolidò la sua vincente propaganda elettorale.

Rinunciando a qualsiasi forma di impegno politico, gli intellettuali di sinistra avevano peraltro accompagnato i timori di una minacciosa avanzata della destra con una pungente polemica rivolta contro una sinistra politica accusata di averne favorito l’ascesa. Prefigurando forse la sconfitta elettorale della «gioiosa macchina da guerra» guidata da Achille Occhetto, nel 1994 molti di loro avevano rifiutato anche solo l’ipotesi di una candidatura e due anni dopo, alle soglie della pur momentanea rivincita di Romano Prodi contro Berlusconi, si erano guardati dal partecipare attivamente alla contesa elettorale.

Massimo D’Alema

Dopo la vittoria dell’ex presidente dell’Iri nell’aprile 1996, i vertici dell’Ulivo provarono dunque a ridurre la distanza emotiva e sentimentale che separava politica e cultura cercando per l’appunto un’occasione di confronto tra sinistra e intellettuali. L’appuntamento di Gargonza, però, lungi dallo sciogliere i nodi irrisolti di quel rapporto, si rivelò un formidabile deflagratore delle profonde divergenze interne al centrosinistra. Massimo D’Alema, allora segretario del Partito democratico della sinistra (Pds), lamentando il crescente peso acquisito dagli intellettuali nel dibattito pubblico riguardante le sorti della sinistra, difese il primato dei partiti ricordando che la politica «è una branca specializzata delle professioni intellettuali» e che «considerare la società civile contro i partiti» era «un metodo tardo sessantottesco, una situazione estrema che ha prodotto soltanto dittature o Berlusconi»: secondo D’Alema, il leader e i dirigenti di partito erano essi stessi intellettuali «specializzati» nell’arte della politica, abili a filtrare e recepire nell’ambito del quadro culturale da loro tracciato il contributo proveniente dall’élite intellettuale della società. Ribaltando l’accusa rivolta da molti intellettuali al partito da lui guidato, il segretario del Pds rivendicò la validità di un modello largamente adottato nei decenni precedenti dal Pci, secondo il quale il partito non delegava agli intellettuali l’elaborazione di proposte astratte, ma elaborava «collettivamente» la concreta esperienza storico-politica del momento. Lo fece però in un momento storico in cui – complice il discredito di cui soffrivano l’istituzione partito e la politica in generale – quel modello era ormai stabilmente in crisi. L’intervento del segretario del Pds si configurò così come l’estremo e fallimentare tentativo di rianimare uno schema già incrinato da almeno una ventina d’anni.

Uno dei primi significativi sintomi della crisi del modello gramsciano era stata, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, la formazione di un gruppo parlamentare autodefinitosi della Sinistra indipendente. Promotore e ispiratore dell’iniziativa politica era stato nel 1968 Ferruccio Parri, il mitico partigiano «Maurizio», già presidente del Consiglio di un governo di unità nazionale nel 1945, senatore a vita dal 1963 e animatore, a partire da quello stesso anno, della rivista «L’Astrolabio», culla dell’intellighenzia della sinistra non comunista comprendente nomi di grande prestigio culturale quali Alessandro Galante Garrone, Gino Luzzatto, Ernesto Rossi, Paolo Sylos Labini, Costantino Mortati e Arturo Carlo Jemolo. L’obiettivo dell’operazione politica era stato quello di «portare in Parlamento un gruppetto di uomini non di partito, fortemente rappresentativi della Resistenza», capaci di realizzare un’efficace campagna moralizzatrice del paese, introducendo nelle istituzioni rappresentative un pezzo di società civile di sinistra non rappresentata nei o dai partiti. L’allora vicesegretario del Pci Enrico Berlinguer salutò l’arrivo degli indipendenti di sinistra come un passaggio destinato ad allargare l’egemonia culturale del partito quale casa comune degli intellettuali. Nonostante l’apertura di Berlinguer, però, i dirigenti del Pci guardarono con complessiva diffidenza a un’esperienza che apparve a molti di loro come un pericoloso cedimento ai movimenti del ’68, alla tendenza, insomma, originata in quegli ambienti, ad aprire le porte della politica a chi non proveniva dal loro mondo. Dal punto di vista strettamente parlamentare l’esperimento si era rivelato un mezzo fallimento: il Pci si mostrò nei fatti riluttante a coinvolgere gli indipendenti nel complessivo progetto politico del partito o anche solo a valorizzarne le proposte, mentre l’eterogeneità delle componenti e la forte personalità dei singoli intellettuali del gruppo rese sostanzialmente inefficace la loro azione politica. Dal punto di vista dell’opinione pubblica e dell’impatto comunicativo, invece, l’operazione era risultata un grande successo: molti dei suoi membri avevano conquistato presto la ribalta come implacabili moralizzatori della politica. In seguito a un sondaggio realizzato dal settimanale «L’Espresso» nel dicembre 1980, una commissione d’eccezione formata da personalità del mondo della cultura come Leonardo Sciascia, Luigi Firpo, Giuseppe Galasso, Antonello Trombadori aveva indicato molti degli indipendenti di sinistra quali componenti di un ideale, ipotetico, governo degli «onesti», contrapponendone implicitamente il profilo a una politica che iniziava allora a essere percepita come «disonesta».

Eugenio Scalfari

A distanza di pochi anni dalla formazione del gruppo parlamentare della Sinistra indipendente, la nascita del quotidiano «la Repubblica» (1976) aveva assestato un altro significativo colpo al tradizionale modello di rapporti tra politica e cultura incarnato dal Pci. Il giornale fondato da Eugenio Scalfari si presentò sin dalle origini come un quotidiano di sinistra orgogliosamente politicizzato, distante dall’organo militante di partito ma anche dall’illusoria neutralità politica del «Corriere della Sera». Negli stessi anni in cui, da destra, Indro Montanelli promuoveva con «il Giornale» un’operazione per molti versi simile, «la Repubblica» avanzò un modello di giornalismo di intervento, d’interpretazione e commento che sottraeva la figura dell’intellettuale alla riserva naturale della pagina culturale per farne un opinionista politico. Scalfari e i suoi collaboratori non si erano posti solo l’obiettivo di formare l’opinione pubblica di sinistra e guidare la società civile, ma anche quello di condizionare dall’esterno la condotta e l’evoluzione dei partiti di sinistra, il Pci in particolare, presentandosi dunque come un interlocutore piuttosto ingombrante per il partito che in quell’area culturale e politica aspirava a svolgere un ruolo egemone. Non casualmente Enrico Berlinguer aveva reagito con diffidenza nei confronti di quella strana creatura («qualcosa di oscuro», la definì) che pretendeva di «modificare l’immagine», disse, «che abbiamo di noi», di «orientare i nostri comportamenti, indirizzare il processo in corso nel Pci verso certi esiti piuttosto che verso altri».

Le due esperienze, la Sinistra indipendente e il quotidiano «la Repubblica», erano risultate perfettamente complementari tra loro. Diversi componenti del gruppo parlamentare avevano trovato spazio nel corso degli anni Ottanta sulle colonne del quotidiano diretto da Scalfari – dal giurista Stefano Rodotà allo scienziato della politica Gianfranco Pasquino, fino agli economisti Filippo Cavazzuti, Vincenzo Visco e Luigi Spaventa –, mentre un autorevole collaboratore del giornale di via Po, il giornalista economico Massimo Riva, era stato eletto nelle file della Sinistra indipendente, anche in virtù delle critiche rivolte proprio dalle colonne della «Repubblica» all’indirizzo di Berlinguer (e di Craxi), ostaggio a suo parere l’uno delle «purezze ideologiche», l’altro delle «pratiche di sottogoverno». Dopo aver provato senza successo ad arginare quella doppia offensiva che segnava il prepotente ingresso della società civile nell’arena della politica, Berlinguer si era infine rassegnato a rincorrere i suoi protagonisti sul loro stesso terreno di battaglia. Il tentativo, portato avanti dal Pci negli anni Ottanta, di creare spazi di autonomia culturale all’interno del partito e, per molti versi, al servizio del partito stesso, istituendo per esempio centri di ricerca (come il Centro per la riforma dello Stato o il Centro studi di politica economica, noto come Cespe) aperti anche all’«apporto di forze esterne», in molti casi a membri della Sinistra indipendente, andò incontro a un sostanziale insuccesso.

Enrico Berlinguer

Indebolito dal fallimento della strategia della solidarietà nazionale volta a legittimare il Pci come potenziale forza di governo, il 28 luglio 1981 il segretario del Pci aveva rilasciato, proprio al direttore della «Repubblica», la nota intervista sulla «questione morale» nella quale certificava la profonda crisi del sistema politico italiano. Intervistato da Eugenio Scalfari, Berlinguer aveva affermato che «i partiti hanno degenerato», e che questa era «l’origine dei malanni d’Italia», sottolineando in particolare che l’immoralità non si esauriva nelle malversazioni e nella corruzione ma faceva «tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti». Cercando di entrare in sintonia con il clima antipolitico serpeggiante ormai a tutti i livelli della società, il segretario del Pci aveva così finito per legittimare chi riteneva che la politica italiana non fosse più autosufficiente. Scegliendo il terreno del moralismo quale principale collante della sinistra italiana, Berlinguer aveva probabilmente compiuto una mossa indovinata dal punto di vista del consenso elettorale, ma aveva di fatto sancito «una sorta di rinuncia a far politica» da parte del partito da lui diretto.

Dopo l’assassinio di Aldo Moro e il fallimento della pur difficile prospettiva di accesso al governo del paese, Berlinguer e il suo gruppo dirigente avevano scelto di rinunciare alla costruzione di un’alternativa di governo con il Psi, allora diretto da un personaggio temuto e disprezzato da molti esponenti comunisti come Bettino Craxi, capitalizzando invece in termini di consenso elettorale la rendita di posizione offerta loro dal ruolo di opposizione parlamentare al quale la cornice internazionale li condannava sin dal secondo dopoguerra. Scegliendo di incarnare agli occhi dell’opinione pubblica un pacchetto di valori moralmente intangibili, il Pci aveva potuto continuare a vantarsi di rappresentare il «disinteresse» proprio della parte tradizionalmente esclusa dal potere, rimanendo così un punto di riferimento politico imprescindibile per i tanti intellettuali di sinistra inclini ad incarnare il ruolo di strenui oppositori dell’esecrato «regime democristiano». Lo «scarto sull’etica» di Berlinguer aveva segnato però il tramonto del modello gramsciano di partito culturalmente egemone, registrando un (definitivo) cedimento del Pci nei confronti di un «partito della cultura» destinato, a sinistra, a imporre sempre più spesso alla politica il proprio predominio. Non appare esagerato individuare in quel tornante storico il punto d’origine di ciò che è stato recentemente definito un «processo lento, graduale e inesorabile» che vide la sinistra cedere «parte della sua sovranità a un movimento composto da intellettuali, attori, scrittori, registi, poeti, romanzieri, reporter, giornalisti, editorialisti, opinionisti e artisti, tutti molto impegnati […] a dettare quotidianamente l’agenda al mondo progressista e a indicare […] il percorso corretto per essere riconosciuti come il simbolo di un’Italia giusta».

L’orgoglioso intervento di Massimo D’Alema a Gargonza fu dunque un generoso quanto velleitario tentativo di ristabilire il perduto primato della politica sul mondo della cultura, frenando il fatale istinto di molti dirigenti di sinistra ad accodarsi al partito della società civile, a farsi «dettare la linea politica» da un gruppo di intellettuali e giornalisti di successo, percepiti come l’indispensabile medicina rigenerante della politica stessa. Negli anni immediatamente successivi, a cavallo del nuovo millennio, la debolezza manifestata da una politica ormai incapace di riformare un sistema in profonda crisi impedì la realizzazione delle aspirazioni del segretario Pds, legittimando piuttosto la polemica di quegli intellettuali di sinistra che continuavano a dipingere la classe dirigente dei partiti di centrosinistra come un’accolita di irresponsabili complici del berlusconismo imperante.

Nanni Moretti

L’antiberlusconismo si intrecciò così a doppio filo con la montante marea dell’antipolitica. Pochi mesi dopo la sconfitta elettorale del centrosinistra (maggio 2001), il 24 gennaio 2002 si tenne a Firenze una «marcia dei professori» in difesa della «democrazia in pericolo», un corteo guidato dall’urbanista Francesco Pardi detto «Pancho» e dallo storico Paul Ginsborg, entrambi docenti all’Università di Firenze. Il 26 gennaio a Milano una catena umana di circa quattromila persone abbracciò idealmente il Palazzo di Giustizia per protestare contro le ingerenze dell’esecutivo nei confronti del potere giudiziario. I partecipanti delle due manifestazioni si ritrovarono pochi giorni dopo davanti a un palco montato al centro di piazza Navona a Roma ad applaudire le ormai celebri frasi gridate dal regista Nanni Moretti all’indirizzo dei dirigenti del centrosinistra: «Con questi dirigenti non vinceremo mai. Gli elettori della sinistra di oggi non meritano lo spettacolo penoso dei loro vertici […] Quante generazioni dovremo saltare, due, tre, quattro, quante per tornare a vincere?». Accusando i vertici di Democratici di sinistra (Ds) e Margherita di essere stati troppo indulgenti con il regime berlusconiano e presentandosi come gli unici legittimi difensori della legalità e della democrazia, Moretti e gli altri «girotondini» si richiamavano esplicitamente alla stagione di Mani Pulite, tracciando così una precisa genealogia del giustizialismo italiano: non a caso Paolo Flores d’Arcais, intellettuale di sinistra, ex socialista, direttore del mensile «MicroMega», una delle voci più squillanti della stagione post-Tangentopoli, si distinse quale uno dei principali leader di quell’improvvisato movimento.

La sinistra politica si trovò ancora una volta a inseguire gli eventi. Dalle colonne dell’«Unità», l’allora segretario dei Ds Piero Fassino fu costretto a riconoscere al regista romano il merito di aver «tolto il tappo ad uno stato d’animo che era compresso da tempo», chiedendo contemporaneamente «ai tanti intellettuali che guardano alla sinistra e all’Ulivo […] di rendersi disponibili, di mettersi in gioco, di lavorare insieme». Appena pochi giorni dopo, in un incontro presso l’ex Stenditoio di San Michele a Ripa, Fassino dichiarò chiusa «la fase della lunga e grande arroganza» del partito, incline ad ammettere che la «nostra cultura politica è minoritaria, […] spiazzata rispetto alla società italiana». Il principale partito della sinistra si ritrovò così a prendere lezioni di politica da chi, seguendo la linea indicata dal regista romano, parlava di «rischio per la democrazia» e di «governo dell’intimidazione».

Piero Fassino

La supina reazione di Fassino non fece che certificare il divorzio tra intellettuali e partito. Se i primi erano ormai convinti di poter fare di più e meglio senza, o addirittura contro la politica, il secondo oscillava ambiguamente tra la calcolata opportunità di inseguire il consenso mediatico di opinionisti, giornalisti e uomini di cultura e la velleitaria aspirazione a ritrovare un primato ormai perduto. Leader politici genuinamente vicini al mondo della cultura come Walter Veltroni e Dario Franceschini, entrambi al vertice del Partito democratico tra gli anni Dieci e Venti del nuovo secolo, non risolsero questa ambiguità: anzi, per certi versi contribuirono ad accentuarla. Giornalista romano con un’ardente passione per il cinema e la letteratura il primo, avvocato ferrarese con l’amore per la scrittura il secondo, entrambi aspiranti intellettuali oltre che navigati politici, Veltroni e Franceschini non riuscirono a indicare al partito un nuovo modello di confronto tra politica e cultura.

Beppe Grillo

L’atteggiamento rassegnato assunto da Fassino e compagni portò buona parte dell’opinione pubblica di sinistra nelle braccia del nascente Movimento 5 Stelle. Sotto il segno dell’antipolitica e del giustizialismo, un filo rosso unisce infatti la stagione di Mani Pulite, il movimento girotondino e l’ascesa politica di Beppe Grillo. La sinistra politica cercò di opporsi all’ondata populista senza avere la compattezza e la determinazione per farlo. Nel 2013, alla scadenza del mandato di Giorgio Napolitano, il M5s propose come candidato alla presidenza della Repubblica il nome del giurista Stefano Rodotà. La provocazione era ben congegnata. Rodotà era stato l’intellettuale più rappresentativo dell’esperienza politica della Sinistra indipendente e uno degli editorialisti di punta della «Repubblica» di Eugenio Scalfari, l’icona di una sinistra intellettuale difficilmente riducibile alle ragioni dei partiti politici. I dirigenti del Partito democratico non potevano convergere su un nome che simboleggiava il primato della società civile sulla politica, ma la loro risposta fu debole e scomposta: dopo essersi letteralmente lacerati intorno ai nomi di due padri nobili del centrosinistra come Franco Marini e Romano Prodi, furono costretti a rivolgersi supplichevoli al presidente uscente Giorgio Napolitano affinché acconsentisse a essere rieletto, seppur per un breve mandato.

 

2. Il modello Craxi e il centrodestra italiano

Il 14 marzo 1996, poco più di un mese prima delle citate elezioni politiche vinte dall’Ulivo di Romano Prodi, Silvio Berlusconi, fondatore di Forza Italia e leader del Polo per le Libertà, presentò alla stampa i «suoi» intellettuali: Piero Melograni, Lucio Colletti, Giorgio Rebuffa, Marcello Pera, Vittorio Mathieu e Saverio Vertone. Cinque professori universitari e un giornalista, di diversa estrazione culturale e formazione politica, accomunati dall’improbabile ruolo di testimonial della rivoluzione liberale annunciata dal partito-azienda messo in piedi dal Cavaliere due anni prima: uno storico contemporaneista allievo di Renzo De Felice, iscritto al Pci fino al 1956; un filosofo marxista pentito; un sociologo del diritto; un filosofo della scienza studioso di Popper; un altro filosofo e storico della filosofia; e un giornalista iscritto al Pci fino al 1983, allora opinionista del «Corriere della Sera».

Silvio Berlusconi

Berlusconi si convinse che la sfida lanciata dal mondo dell’impresa e del lavoro all’indirizzo dei «soliti politici di mestiere che non avevano mai lavorato un solo giorno in vita loro», la sfida contro i «grigi burocrati» di partito non potesse prescindere dall’esporre al pubblico lo scalpo di un gruppetto di intellettuali. Lungi dal ricoprire un qualsiasi ruolo di elaborazione teorica della linea politica del partito, i sei furono vittime più o meno consapevoli di un’operazione di puro marketing elettorale in cui la cultura venne ridotta a mero specchietto per le allodole. Non era certo la prima volta che Berlusconi dava mostra di un’idea spregiudicatamente utilitaristica della cultura. Alla metà degli anni Ottanta aveva stampato in proprio, in tiratura limitata (1000 copie), un’edizione dell’Utopia di Thomas More, la cui prefazione e traduzione testuale dal latino si rivelarono interamente plagiate dall’edizione curata pochi anni prima dallo storico torinese Luigi Firpo per l’editore Guida di Napoli. Non pago di quella sfacciata operazione di plagio letterario, nel 1990 Berlusconi inventò, auspice l’amico bibliofilo Marcello Dell’Utri, una casa editrice, successivamente assorbita dalla Mondadori dopo il suo ingresso in politica. Tra i primi (e unici) titoli pubblicati in quei primi anni Novanta, la Silvio Berlusconi pubblicò, oltre all’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam e all’Utopia di Thomas More, anche un’edizione strenna del Principe di Machiavelli. Nella prefazione apparsa a sua firma, Berlusconi fece selezionare accuratamente una serie di massime machiavelliane ad uso e consumo di manager e uomini della televisione, frasi ad effetto come «Dare di sé in ogni azione fama di uomo grande e di uomo eccellente», oppure «Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’», senza peraltro fare mistero del fatto che il suo entusiasmo per Machiavelli scaturiva dall’«assoluta tensione verso l’obiettivo del potere» manifestata dal Segretario fiorentino, nonché dal suo invito a conquistare quel potere «se necessario operando al di fuori del dominio della morale». Più di tre lustri dopo, l’ultimo atto della sua carriera di imprenditore pseudoeditoriale fu il dono, rivolto ai leader mondiali intervenuti al G8 dell’Aquila, di una copia del volume Antonio Canova. L’invenzione della bellezza: un’«opera d’arte in forma di libro», secondo l’autoelogiativa definizione fornita dalla casa editrice Marilena Ferrari-FMR che lo realizzò per lui per la modica cifra di 300.000 euro a copia, un libro-monstre dal singolare peso di venticinque chilogrammi, destinati a sfiorare i cinquanta una volta riposto nella sua custodia di mogano. Un’inutile e goffa dimostrazione di opulenza.

Nei mesi successivi alle elezioni del 1996 Berlusconi prese l’abitudine di convocare i «suoi» intellettuali per pranzo a Palazzo Grazioli o in via dell’Anima: li faceva parlare, li ascoltava, poi giustamente «faceva di testa propria». Pochi mesi, e quegli appuntamenti si trasformarono in uno stanco rituale ripetuto a intervalli sempre più diradati nel tempo. Al di là delle illusioni coltivate dai singoli protagonisti, quel piccolo gruppo di professori universitari non fu altro che un manipolo di inascoltati consiglieri del principe, pronti a essere allontanati quando le regole del marketing politico-elettorale lo avessero giudicato più opportuno.

Bettino Craxi

Nell’atteggiamento smaccatamente cortigiano di Berlusconi c’era molto di Bettino Craxi. Subito dopo la sua elezione alla segreteria del Partito socialista italiano (1976), il giovane Craxi si era affidato al contributo di un nutrito gruppo di intellettuali di area socialista con l’obiettivo di consolidare il suo ruolo politico. Aveva assegnato il compito di redigere il programma di partito agli uomini di cultura riuniti intorno alla rivista «Mondoperaio», allora diretta da Federico Coen, tra i quali filosofi come Norberto Bobbio e Paolo Flores d’Arcais, storici quali Luciano Cafagna, Ernesto Galli della Loggia, Massimo L. Salvadori e Furio Diaz, giuristi come Giuliano Amato, Franco Bassanini, Federico Mancini e Gino Giugni, scienziati della politica e sociologi quali Roberto Guiducci, Luciano Pellicani, Gianfranco Pasquino e Luciano Benadusi, ed economisti quali Franco Momigliano, Antonio Pedone e, naturalmente, Giorgio Ruffolo. Tra il 1976 e il 1979 le campagne culturali della rivista avevano fornito al fiero autonomismo socialista di Craxi una legittimazione altrimenti difficile da ottenere e il giovane segretario del Psi aveva ripagato quel gruppo di intellettuali concedendo loro spazi politici inediti. L’idillio, però, non era durato molto. «Mondoperaio», come è stato scritto da uno dei protagonisti di quella fortunata stagione, era il «luogo ideale della indipendenza, della ricerca innovatrice, della libertà», un ambiente «non vincolato da discipline di linea politica, da legami ideologici e finanziari, non espressione di interessi consolidati di grandi strutture organizzate», uno spazio di elaborazione critica nel quale gli intellettuali potevano dialogare e riflettere anche senza «iscrizioni» formali, e soprattutto, senza necessariamente condividere le «compagnie» e gli «odori» degli ambienti politici: presto Craxi aveva iniziato a diffidarne. All’indomani del deludente risultato elettorale del 1979, quando era apparso ormai chiaro che il fallimento del compromesso storico non apriva la strada all’«alternativa socialista» quanto piuttosto a un ritorno del Psi nell’area di governo, Craxi aveva iniziato a gestire il partito in maniera più verticistica. Di fronte alle pubbliche critiche rivoltegli, dapprima individualmente poi collettivamente, da quegli stessi intellettuali che fino a poco tempo prima aveva considerato tassello fondamentale della sua politica di modernizzazione del paese, la reazione era stata violentissima. Il Partito socialista, aveva dichiarato Craxi in un’intervista all’«Espresso», era «un partito laico» all’interno del quale non era riconosciuto «un Ordine sacerdotale degli intellettuali, dotato del potere di condannare o di assolvere». Nessuno, all’interno del gruppo dirigente del partito, aveva scelto di istituire una «casta» degli intellettuali né tantomeno aveva «delegato» a un «gruppo specifico» la funzione di «proporre idee e formulare critiche»: «Vi sono tra noi migliaia di intellettuali», aveva attaccato, «scienziati, ricercatori, umanisti, tecnici, politici. Ognuno di loro può redigere manifesti, appelli, messaggi, sempre che voglia». L’argomentazione era evidentemente speciosa: se avesse voluto solamente riaffermare il primato della politica sulla cultura, come pure è stato suggerito, Craxi non avrebbe aspettato il primo attacco pubblico rivoltogli da coloro che fino a poco tempo prima aveva vezzeggiato. Più semplicemente, il segretario socialista si era rivelato allergico alle critiche, tanto più se provenienti da influenti uomini di cultura legati al partito i quali, anche in ragione di quel rapporto privilegiato, avevano accesso diretto all’arena del dibattito pubblico. Gli intellettuali preferiva averli a sua completa disposizione. Quando nell’agosto del 1978 Enrico Berlinguer rilasciò alla «Repubblica» una lunga intervista nella quale esaltò «la ricca lezione leninista» e il direttore dell’«Espresso» Livio Zanetti lo sollecitò a rispondere per iscritto, Craxi si era rivolto al giovane sociologo Luciano Pellicani chiedendogli di adattare al formato giornalistico un suo corposo saggio su leninismo e socialdemocrazia preparato per tutt’altra occasione. L’articolo, che faceva di Proudhon il grande teorico e precursore dei socialisti antiautoritari, era uscito sull’«Espresso» con l’ormai celebre titolo Il Vangelo socialista, e con la sola firma di Bettino Craxi. Come testimoniano anche i numerosi interventi dedicati alla figura di Giuseppe Garibaldi, c’era nel leader socialista l’ambizione di presentarsi come figura intellettuale, artefice lui stesso della linea culturale del partito.

Giuliano Amato

Giuliano Amato, prima di iniziare quel movimento di riavvicinamento al leader socialista che lo avrebbe portato nel giro di pochi anni a ricoprire la cruciale posizione di sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Craxi capo del governo (1983-1987), aveva lamentato l’umiliazione di uomini di pensiero ormai ridotti al ruolo di «corifei». Il segretario Psi aveva affidato al suo giovane collaboratore Claudio Martelli il compito di ribadire, in forme se possibile ancora più sprezzanti, il fastidio suscitato da quelle critiche: qualcuno di loro, aveva scritto il futuro ministro della Giustizia, soffriva certamente di un’«euforia da mass media» tale da indurlo a sopravvalutare «in modo francamente eccessivo» il «proprio ruolo». Gli intellettuali, aveva ribadito Martelli pochi giorni dopo, erano, al di fuori delle loro specifiche competenze tecniche, «detentori degli stessi identici diritti e doveri di ogni altro militante». In un «partito democratico» non c’era posto per altri dirigenti che quelli eletti: «il più bravo in politica è chi decidiamo liberamente di scegliere, non chi ha più titoli accademici o ha scritto più libri o ha legittimamente accesso a più ascoltate tribune». L’uscita pubblica di Martelli aveva le sembianze di una stentorea rivendicazione del primato della politica sulla cultura ma nascondeva una concezione proprietaria degli intellettuali. Craxi non concepiva alcun grado di autonomia per gli intellettuali di area socialista: per loro valeva, come ha scritto recentemente lo storico Ernesto Galli della Loggia, «l’obbligo di piegarsi senza troppe storie al comando di chi la politica la faceva sul serio». Il leader socialista liquidò i suoi contestatori apostrofandoli come «casta», ricordando loro che «questi intellettuali» poteva «sostituirli a piacere», perché ne aveva «centinaia a disposizione». All’apice del successo politico, all’indomani della plebiscitaria rielezione alla segreteria del partito (1984), Craxi aveva infine aggredito con parole sprezzanti («i filosofi hanno perso il senno») Norberto Bobbio, reo di avere espresso una serie di critiche al suo modo di condurre il partito. E pochi mesi dopo, nel novembre 1985, aveva dato dell’«intellettuale dei miei stivali» e dell’«ignorante» a Galli della Loggia durante il dibattito parlamentare sulla fiducia che l’esecutivo da lui presieduto fu costretto a chiedere per la seconda volta dopo l’uscita del Pri dal governo. Craxi, insomma, per citare Luciano Cafagna, pensava agli intellettuali «come cortigiani, considerandoli quindi solo individualmente».

Marcello Pera

Berlusconi si limitò ad adottare il modello cortigiano del secondo Craxi, senza pretendere però di apparire lui l’intellettuale di turno. Quando i «suoi» intellettuali iniziarono a criticare la sua incapacità di prendere posizione sui singoli temi del dibattito politico, smascherando così la debolezza della sua leadership, la distanza ormai maturata si tradusse in aperto rigetto. Appena due anni dopo, in occasione della nuova campagna elettorale seguita alla caduta del primo governo Prodi (1998), i vezzeggiati professori universitari furono abbandonati al loro destino. Solo Giuliano Urbani, già ministro della Pubblica amministrazione nel primo governo Berlusconi, e Marcello Pera, filosofo della scienza destinato a ricoprire nel 2001 lo scranno della seconda carica dello Stato, si integrarono nel partito nella misura in cui, come è stato scritto, smisero di essere professori universitari diventando veri e propri politici. Gli altri migrarono verso nuovi lidi: Giorgio Rebuffa, dopo l’esperienza della fallita Bicamerale, si spostò con Francesco Cossiga, e Saverio Vertone abbandonò Forza Italia iscrivendosi al gruppo misto con Rinnovamento italiano di Lamberto Dini, per essere poi candidato nel 2001 nella lista dell’Ulivo per la Margherita. Altri ancora minacciarono di non ricandidarsi, come l’ultimo Lucio Colletti, destinato a spegnersi poco dopo la sua sofferta rielezione. Negli anni successivi l’unico intellettuale liberal-conservatore che scelse di «sporcarsi le mani, scendendo a compromessi, innanzitutto con la propria coscienza», come scrisse lui stesso in altre circostanze, fu Gaetano Quagliariello, docente di storia contemporanea e storia dei partiti politici all’Università Luiss di Roma, passato con grande disinvoltura dalla giovanile esperienza nel Partito radicale alle file dei più ispirati teocon italiani, stimato studioso di de Gaulle e del gaullismo francese oltre che biografo di Gaetano Salvemini, consigliere per gli affari culturali del presidente del Senato Marcello Pera, senatore di Forza Italia dal 2006, ministro delle Riforme istituzionali nel governo presieduto da Enrico Letta e sostenuto anche dal Cavaliere nel 2013.

Umberto Eco

Berlusconi era da sempre ostile ai politici di professione, convinto che la politica dovesse essere fatta da non politici. Egli però non era per nulla avverso all’expertise e alle competenze, non credeva cioè che chiunque potesse svolgere quell’attività: chi era chiamato a prendere il posto dei politici di lungo corso doveva aver dimostrato il proprio valore nel settore professionale di provenienza, docenti universitari compresi. A cavallo del nuovo millennio, però, questa prospettiva almeno parzialmente meritocratica svanì, e con essa anche la «stagione intellettuale» di Berlusconi volse al termine. Più videocassette e meno articoli di giornale: il nuovo reclutamento elettorale fu all’insegna della videocrazia, regno nel quale il Cavaliere si muoveva certamente a suo agio. «Ho più soggezione di Mike Bongiorno e di Raimondo Vianello che di una schiera di intellettuali», disse ai suoi collaboratori alla vigilia delle elezioni politiche del 2001. «Conta di più quanto dice un uomo di spettacolo davanti alle telecamere che cento editoriali sui giornali», sottolineò con cinico candore. Il suo profondo disinteresse nei confronti degli intellettuali e, per converso, la sua innata fascinazione per la cultura televisiva emersero in tutta evidenza. «Meno intellettuali abbiamo in lista e più la gente – che è distante anni luce da questi modi di pensare – ci apprezza», gli fece eco Gianni Baget Bozzo, uomo di Chiesa già passato per la corte di Bettino Craxi. A poco valsero allora i consigli di un intellettuale liberale come Ernesto Galli della Loggia, il quale, muovendosi sul filo dell’ironia, gli suggerì, nel giorno del varo del suo secondo governo (maggio 2001), di familiarizzare con il mondo della cultura e degli intellettuali, mascherando il suo disprezzo e conquistando la simpatia di scrittori, professori universitari, giornalisti, anche al fine di creare un clima di maggior consenso intorno alla sua azione di governo: «Si faccia vedere ogni tanto in un museo, a una prima teatrale, vada all’Opera, inviti a cena Umberto Eco», lo incoraggiò tra il serio e il faceto.  …

*Senza intellettuali
Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni
Giorgio Caravale

estratto dal libro tratto da laterza.it