Sembrano azioni difensive, quelle chieste dalla gran parte dei Comuni italiani, metropoli o province non fa differenza, contro aggressività, violenza e frustrazioni vomitate su centri storici e periferie, piuttosto che azioni repressive.
L’Aquila sconta come tutte le altre città le restrizioni della pandemia e sconta il post sisma, dopo un decennio buono siamo costretti ancora a vivere in una città che si anima solo di notte, senza una normalità tra uffici, scuole, chiese, palazzi e tra mille cantieri. E’ una comunità intera che dovrebbe esigere ricostruzione pubblica e la fine di quella privata senza ulteriori indugi, sarebbe un primo passo verso una città vissuta, darebbe una percezione differente a chi l’ha conosciuta solo di notte. E l’ha conosciuta tra ruderi e zone buie, bella vita e baretti strani, accomodandosi come ha potuto, senza avere memoria di una piazza, un vicolo, un gruppo di amici o universitari fermi a quella colonna a cazzeggiare in serenità.
Siamo carichi di aggressività giovani e meno giovani, ma lo siamo da nord a sud, da est ad ovest, dalle metropoli alle province, il grido di aiuto delle amministrazioni contro la violenza delle serate brave e alcoliche è sempre più frequente, il problema c’è, è reale, saranno casi, ma la cronaca nazionale ne racconta sempre più spesso.
Per interpretare la priorità dell’aperitivo sulle migliaia di morti al giorno di questi mesi ci vorrebbero sociologi e politologi, leggiamo però solo di analisi economiche. Innanzitutto e soprattutto il PIL.
E sarebbe importante conoscere l’evoluzione sociale all’Aquila. Avremmo dovuto monitorarla, verificarne i cambiamenti, i nuovi assetti, capirne le mobilità, le residenzialità, i flussi migratori verso altre Regioni o nei nostri territori, ma di fatto uno studio statistico non c’è mai stato. Nonostante le sollecitazioni, nessuno ne ha mai avvertito l’urgenza. E in un contesto di vita così cambiato, dalla famiglia alla scuola, bisognerebbe ammettere i danni irreversibili della fine dell’autorevolezza, di genitori o docenti, in molti giovani, ancor prima della carenza di centri di aggregazione. Non sentiamo più parlare di doveri. In quanti studiano o lavorano? In quanti cercano ancora un lavoro?
Lo scorso febbraio l’Istat denunciava la perdita di mezzo milione di posti di lavoro. Tra le categorie più colpite, donne e giovani. Tra i giovani il tasso di disoccupazione sale al 29,7% (+0,3%) e le fasce di età tra i 15 e i 24 anni hanno perso il 13,4% degli occupati: 167mila posti, rilevava l’Istituto. Già erano pochi i ragazzi ad avere un lavoro vero, ora uno su sette lo ha perso. La fascia di età più colpita è 35/49 anni, -315mila posti di lavoro, 74mila in un mese. Il mercato non riassorbe, gli incentivi alle assunzioni sono troppo complessi e le politiche attive al palo, denunciavano i sindacati, sono aumentati gli inattivi e chi non cerca più un’occupazione. Gli over 50 sono al contrario per lo più garantiti da contratti stabili e gli occupati salgono di 197mila unità.
Una pericolosissima contrapposizione generazionale che potrebbe deflagrare in una bomba sociale, commentavano alcuni.
Rabbia, insoddisfazione, sfiducia, frustrazione, mancanza di prospettiva, indolenza/violenza, questioni serie da affrontare, in particolar modo nel nostro contesto, post sisma/pandemia, ancor più difficile che nel resto del Paese.