21 Giu 23

Lo scatafascio della sanità pubblica

Gli italiani spendono “di tasca propria” in salute per prestazioni e farmaci, in tutto o in parte (pagamento di un ticket) non coperti dal SSN annualmente quasi 40 miliardi di euro, raggiungendo una quota del Pil superiore al 2%.
A ciò si aggiunga l’intensificarsi della “mobilità sanitaria”, generato dalla necessità di rivolgersi a strutture pubbliche di altre Regioni per ottenere prestazioni del SSN di fatto non erogabili nel territorio di residenza a causa dei deficit strutturali della sanità regionale di appartenenza.

E’ uno dei deficit più preoccupanti denunciati nel ‘Termometro della Salute – Secondo Rapporto sul Sistema Sanitario’, presentato da Eurispes ed Enpam.

Ciò vuol dire non riuscire ad assumere, non coprire il turn over e continuare a restare indietro rispetto ai territori più virtuosi che invece assumono e investono. Due estremi nel 2018: la Regione Lombardia ha riscontrato un saldo positivo di quasi 809 milioni di euro, mentre la Regione Calabria un deficit di quasi 320 milioni di euro e la Regione Campania di più di 302 milioni.

Dall’indagine Eurispes risulta che un quarto delle famiglie italiane non riesce a curarsi, mentre un terzo dei cittadini ha dovuto rinunciare a prestazioni o interventi per indisponibilità delle strutture sanitarie.

L’Abruzzo, in deficit cronico fino a qualche anno fa, non è tra le Regioni virtuose.

Secondo la fondazione Gimbe, in un decennio sono stati sottratti oltre 37 miliardi di euro alla Sanità pubblica, di cui circa 25 miliardi nel periodo 2010-2015, in conseguenza dei tagli previsti dalle manovre finanziarie e oltre 12 miliardi nel periodo 2015-2019, in conseguenza del “definanziamento” che, per obiettivi di finanza pubblica, ha assegnato al SSN meno risorse rispetto ai livelli programmati.

Per almeno 15 anni il Fondo Sanitario Nazionale ha subìto successive decurtazioni nello spirito delle spending review necessarie ad assestare i conti pubblici. Ciò ha prodotto un depotenziamento progressivo della sanità pubblica, nel 2019, anno spartiacque perché non ancora toccato dalla pandemia, la quota del Pil riservata alla Sanità era scesa al 6,2%, alla quale i cittadini aggiungevano un 2,2% di spesa diretta. La media nell’Europa a 27 era rispettivamente il 6,4% e 2,2%, ma in Germania 9,9% e 1,7%, in Francia 9,4% e 1,8%, in Svezia 9,3% e 1,6%. Ciò significa che l’investimento pubblico in Sanità in Germania e in Francia è di più di un terzo superiore a quello italiano. 

Su tutto ciò un bagno di realtà dell’Osservatorio, e cioè che l’obiettivo programmato con il Dm 77, per l’apertura in pochi anni di circa 1.350 Case di Comunità, comporta uno sforzo logistico enorme che difficilmente la maggior parte delle Sanità regionali sarà in grado di sopportare. Se il Sistema Sanitario Nazionale non sarà messo in grado di programmare e poi assorbire le necessarie professionalità, le Case e gli Ospedali di Comunità resteranno vuoti; mentre la crisi del decisivo comparto della medicina generale si avviterà ulteriormente, gli ospedali continueranno a degradarsi, l’universalità della sanità pubblica continuerà a deperire, si apriranno ulteriori autostrade per la sanità privata e curarsi diverrà una questione di censo.
L’attenzione che il Dm 77 dedica alla telemedicina e alla ottimizzazione delle reti di comunicazione in ambito sanitario, rileva infine, si scontra con la realtà di molte Regioni per le quali il Fascicolo Sanitario Elettronico è ancora uno strumento sostanzialmente sconosciuto.