*Riprendiamo l’intervento di Guglieri per calarlo anche sulla nostra realtà aquilana. Sugli effetti che anche le decisioni locali possono avere sul futuro di una città e sulla sua attrattività per gli studenti fuorisede, ad esempio, che continuano a scegliere di restare solo perché è un bel posto e lo è sempre stato di certo non perché è ben collegato e con fitti accessibili.
Ancora sulle proteste contro i “caro affitti” e gli studenti accampati in tenda. La scorsa settimana registravo le reazioni al limite del sarcasmo da parte di alcuni osservatori e in generale delle generazioni successive – che a volte mi sembrano più guidate dal desiderio di recitare il sergente di ferro di Full Metal Jacket che altro (e la domanda da farsi sarebbe: quale debolezza rivela questo desiderio di rigidità?).
Ma guardiamo il tutto da una prospettiva più ampia: Torino si sta svuotando. Dagli anni Settanta a oggi, la popolazione è diminuita di trecentomila abitanti. Praticamente abbiamo perso una cittadina come Verona o Catania. Certo le trasformazioni del tessuto industriale hanno avuto il loro peso, ma l’identità incerta che la città stenta a trovare nel nuovo secolo non ha invertito la tendenza.
Il senso di spopolamento è un sentimento che ti scivola dentro camminando per le strade, costeggiando interi isolati di serrande abbassate, uffici vuoti, centri direzionali deserti. Torino è una città attrattiva? D’accordo, gli affitti sono più bassi che a Milano e con l’alta velocità qualcuno potrà immaginarla come la “suburbia” meneghina, ma è davvero quello che vogliamo diventare? Un quartiere dormitorio?
Le città sono dei “modi di esperienza”, scrive Bertram Niessen in ‘Abitare il vortice. Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo’ (Utet), la lente attraverso cui facciamo esperienza del mondo e della società, delle “macchine simboliche” che ci plasmano e che a nostra volta contribuiamo a creare.
Quindi, che città vogliamo?
I problemi sono globali, d’accordo, ma l’impatto e le decisioni da prendere sono anche locali. L’Italia e Torino hanno bisogno di immigrazione, ma come pensiamo di attrarla e gestirla se non siamo in grado di accogliere dei ‘semplici’ fuorisede e trasformarli in cittadini torinesi? È un tema che mi sta a cuore perché fuorisede lo sono stato anch’io. Sanremo, dove sono nato, non è lontana geograficamente ma i disgraziati collegamenti ferroviari la rendono tale, e comunque conosco la vitalità e la malinconia di chi lascia una famiglia lontana. Il punto però è che studiare fuori non è un privilegio ma un’opportunità: a cominciare per le città di destinazione che così drenano talenti e competenze – a patto che riescano a trattenerli.
Dopo la laurea decisi di fermarmi a Torino ma oggi, venti e passa anni dopo, rifarei la stessa scelta o mi trasferirei altrove? È la domanda che dobbiamo farci tutti.
*Francesco Guglieri
scrittore e editor di narrativa per Einaudi
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