07 Lug 23

City branding, è una città come tante

Il saggio, Abitare il vortice. Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo, di Bertram Niessen, è da leggere per capirci meglio, per chiarirci nel nostro percorso di recupero urbano e culturale, per mettere tasselli nel mosaico confuso della ricostruzione post sisma, attraversata cinicamente da una pandemia.

C’è un sacco di lavoro da fare per costruire nuovi legami di senso tra le persone e le città, per l’autore. Le persone che attraversano e vivono le città non riconoscono più l’ordito economico-finanziario che si mimetizza e governa silenziosamente le rigenerazioni urbane. Le città, porzioni di città, sono diventate brand, city branding in cui le relazioni sociali sono schiacciate dalla dimensione economica ed hanno reso invisibili e indicibili intere parti della nostra vita, col risultato di patologizzarsi in un  ‘vortice’, in cui cerchiamo di sopravvivere e di non perdere i nostri simboli, perché anche il linguaggio, tra target e performance, diventa omologato.

La cultura, la creatività e gli immaginari sono stati messi a regime nella finanziarizzazione dello spazio urbano, nella gentrificazione e nella turistificazione, generando nuovi poteri e nuove ricchezze, nuove disuguaglianze e nuove ingiustizie.

Bertram Niessen

E che fine fanno quelli che non si possono più permettere di vivere nei quartieri che hanno contribuito a rendere così attraenti?, sono marginalizzati in un contesto in cui gentrificazione diventa anche foodification, in cui il marketing può rilevare e riprodurre gli elementi di interesse, rimuovendo tutti i caratteri incontrollabili di ambiguità e proponendo una versione sterilizzata e iper-semplificata dell’identità locale per una ristorazione di massa.

Logiche di consumo anche della cultura, che ci sta trascinando in un ‘vortice’ in cui è difficile riconoscere segni identitari. Secondo l’autore abbiamo bisogno di una trasformazione culturale, considerate le crisi locali e globali che si sono sommate fino a costruire una tempesta perfetta, che rischia di spazzarci via. Dovremmo aprire la cultura al disordine e il disordine alla cultura. Superare la nevrosi del decoro, accettando che strade, piazze ed edifici divengano spazi di presa di parola, in particolare da parte dei più marginalizzati. Una cultura più indecorosa e meno decorativa, che faccia domande, che sporchi, che ogni tanto non ci faccia dormire e che ci metta scomodi. Un’arte che si metta in dubbio e discuta con le persone, scavalcando il recinto in cui si è rinchiusa da sola.

“Le città delle crepe”, seconda parte del libro, si interroga su come ricostruiamo le interazioni quotidiane negli spazi urbani.
Il Covid e il lockdown, sono arrivati come uno shock, beffandosi proprio di chi stava vivendo il grande sogno futuribile della città, e si è ritrovato a pagare affitti stellari per starsene murato in monolocali claustrofobici, mentre gli amici in provincia li salutavano via Zoom, dalle loro belle e quiete case con giardino, o magari vista mare, storicizza l’editore. 

Avremmo dovuto cambiare i nostri stili di vita, migliorare la mobilità pubblica, interrogarci sulla vivibilità dei nostri spazi pubblici, recuperare le nostre relazioni, il nostro vissuto in contesti urbani già assorbiti da logiche economico-finanziarie, che avevano già stravolto profondamente i nostri quartieri, le nostre vite, la nostra storia. Avremmo dovuto fare tanto, abbiamo fatto pochissimo e viviamo sempre più isolati, tra vortici che ci risucchiano. In una città, L’Aquila, attraversata da un sisma devastante, che stiamo ricostruendo senza quartieri e senza anime, in nome di una migliorata qualità di vita, che non è altro che un brand edil-economico e finanziario che ci governa ormai da anni.

“Le città dei vortici”, è la terza e ultima parte del libro in cui l’autore indaga le realtà vive, i progetti culturali nati nei luoghi e le nuove forme di vivibilità per sopravvivere e tornare a vivere, ricostruendo riferimenti culturali dal basso, riappropriandosi di significati.