Il sogno di una città più bella, di urbanisti all’altezza, di architetture di pregio e di occasioni perse per il rilancio, in una città indifferente, non può che restare un’aspirazione. Perché L’Aquila resta una città indifferente, fa notare con lucidità chi non ci è nato. Era morta già al 6 aprile, economicamente, finanziariamente e architettonicamente, perché il centro storico era solo un grande nucleo degradato e tutti ci vivevano male, o almeno così ci si raccontava, costretti a viverci col sogno di una vita diversa, in una città non meglio identificata dove trovare tutto quanto L’Aquila chiusa, provinciale, paesana e di mentalità ristretta non avrebbe mai potuto offrire. Gli universitari l’abitavano perché il centro era monumentale, e nonostante l’abbandono, viveva di vita propria, indipendente da ogni mala amministrazione consumata negli ultimi decenni, i proprietari delle case affittavano per un occhio della testa senza spendere un centesimo di manutenzione, mentre ogni abuso, dai garage interrati in pieno centro, alle superfetazioni delle soffitte e sulle terrazze, più di tanto non ha mai fatto effetto a nessuno. L’Aquila è cresciuta così male, proprio per la leggerezza con cui sono passati gli abusi, sempre sanati. Oggi, dopo qualche anno di passione per la riappropriazione del centro distrutto, torna il dna vero, quello della freddezza, dell’indifferenza del che ci torno a fare in centro, non c’è più niente, meglio vendere. Un più niente fatto di chiese scoperchiate, di scalinate dove l’erba è sempre più alta, di cortili spettrali, di fontane ormai secche, di quella a piazza Nove martiri dov’è scomparsa la piccola statua che la ornava ma non se ne parla più, come non si parla più del danno a Porta Napoli, appena restaurata, di un camion che trasportava materiali edili. Ufficialmente non si sa niente, nessuno chiede niente. In giro si respira la regressione, che ci riporta indietro di cinquant’anni, quando bastava un tavolino e quattro sedie, un tressette fuori al bar e passava la giornata, mentre tutt’intorno era lento, con le maestranze che arrivavano al mattino per andare via a sera, il centro di oggi è uguale a quello di ieri, e così lo vive anche chi lo abitava, ci lavorava e lo respirava in ben altri contesti. Ci accontentiamo, ci siamo sempre accontentati, passa oggi che viene domani, l’Italia lo ha capito, L’Aquila s’è seduta, non s’è voluta rimboccare le maniche ed è terribilmente vero. I grandi architetti, urbanisti, o i progetti di riqualificazione da farci invidiare al mondo, restano l’aspirazione irrinunciabile di chi non vuole arrendersi ad una vita così tristemente scandita e forse irrimediabilmente segnata. Nonostante tutto, nonostante la brutta apatia che si respira.