Su Linkiesta di qualche anno fa, Andrea Coccia intervistava Claudio Fava, giornalista, politico, vice presidente della Commissione d’inchiesta antimafia, autore del libro Comprati e venduti, Add Editore, per raccontare di giornalisti morti ammazzati, di giornalismo e libertà, di precari e verità, di professionalità fantasma e della dignità dei freelance, che il nostro Parlamento non ha mai avuto intenzione di tutelare. E nessuno ha interesse a parlarne naturalmente.
E’ nelle periferie dell’Italia e della professione stessa, che sta venendo il miglior giornalismo, raccontava Fava al collega Coccia. Il miglior giornalismo oggi lo produce chi non ha un contratto sicuro in tasca, chi non ha quindici mensilità garantite. Lo produce gente che mette a rischio la propria faccia, la propria pelle, ma anche il proprio lavoro. Perché lavorare in stato di precarietà assoluta vuol dire non avere difese, vuol dire avere molte più difficoltà ad andare avanti. Ma spesso sono proprio questi giornalisti ad aver tirato fuori le storie più dure e dolorose.
E intanto nella nostra città si fa strada un recentissimo pericoloso baciapilismo, sceneggiato da alcuni soggetti, che avremmo invece incastonato ad occhi chiusi in categorie libere e rivoluzionarie. Che fine faremo?
Un giornalismo precario può essere libero? Chiede Coccia
Un giornalismo precario è un giornalismo a rischio, sia professionale che personale. Da un canto il bisogno di fatturare e di scrivere per guadagnare portano ad abbassare la qualità, a scrivere di più, peggio, e a non poter rischiare di pestare i piedi dei potenti. Dall’altra, il fatto di essere fondamentalmente soli, espone certamente a pericoli più grossi. Se il prezzo di un giornalismo realmente libero è il fatto che sia un giornalismo senza padroni, ma anche senza soldi, allora forse è un prezzo troppo alto da pagare. Poi, chiariamo, esistono anche grandi storie di giornalismo che non sono corsare e precarie, ma sono sempre di meno. È per questo che in commissione antimafia ci stiamo battendo da anni per rendere più tutelata la figura del freelance.
Ma la battaglia non è andata a buon fine perché il freelance resta il classico freelance e ci fosse un politico uno a far finta di battersi per tutelare libertà, professione e giusto compenso. Al contrario. Gli ingaggi sono sempre più rivolti a chi non ha bisogno di un guadagno, perché magari ha fatto altro nella vita, seppellendo ogni giorno di più chi combatte con passione, per guadagnare due lire con le righe che scrive.
Direi che in Parlamento c’è una buona sensibilità, spiega ancora Fava, ma non posso dire che ci sia una straordinaria volontà a cambiare la situazione. Perché, in fondo, alla politica, fa comodo una stampa di questo tipo. Perché consente di non sentire il suo fiato sul collo troppo spesso. È innegabile, aggiunge, che quella parte di giornalisti che sta dentro un sistema di riconoscimenti e di formalità sente di far parte di una casta. E lo dico venendo da questo mondo. E in tanti considerano tutto ciò che sta fuori frutto di improvvisazione, precarietà e, per così dire, periferia della professione.
E in tutto ciò che sopravvive di questa periferia, in particolar modo nella nostra martoriata città, dovremmo forse fermarci per tutelare e lasciare spazio e penna a chi ha scelto questo mestiere col cuore, perché ciò che dovrebbe essere tutela e garanzia di una professione, viene brutalmente rimpiazzato ogni giorno di più da un’improvvisazione spicciola, che rischia di fare pericolosamente il bello e il cattivo tempo.