Sulla ricostruzione post sisma in Abruzzo, è necessario capire se la strada intrapresa è quella giusta. Sono arrivati sul territorio tre miliardi e mezzo di euro, spesi soprattutto per le case ma a mala pena sono state fatte le periferie e sono trascorsi sei anni. Il centro storico ha cantieri solo sui beni vincolati, le case dei privati sono al palo come lo sono le frazioni, perché l’esame delle pratiche non corre. Hanno inventato gli Uffici speciali, che hanno 50 unità lavorative ciascuno, uno per L’Aquila, l’altro per il cratere, quello per il capoluogo ha consulenti che costano un milione di euro l’anno, senza però riuscire a dare una bella smazzata alle pratiche: delle 1.300 schede parametriche, di certo di più, riescono a vedere tre o quattro pratiche al mese, delle circa 2mila, tra singoli e condomini ereditate dal sistema commissariale, ne hanno viste una ventina negli ultimi due mesi. Gli Uffici speciali, rischiano di diventare solo dei carrozzoni succhia soldi, ben saldi sul territorio per i prossimi cinquant’anni senza dimostrare di avere quella marcia in più necessaria alla svolta promessa, il che farebbe gioco a Roma, che ha pochi soldi e poco interesse a sbrigarsi con la ricostruzione. Quella pubblica non va, il Comune dell’Aquila ha le risorse per i propri beni, comprese le scuole, dal 2010, ma non riesce a spenderle non riesce a fare gli appalti, laddove il soggetto attuatore è il Provveditorato ai Lavori Pubblici i meccanismi diventano ancora più lenti, perché negli uffici, ci dicono, si teme la Procura, la Finanza gira a requisire carteggi ogni giorno in quelle sedi e in quelle comunali, non firma più niente nessuno, mentre le chiese, col braccio di ferro ancora irrisolto tra Curia e Stato, sono abbandonate al degrado. Questo è il meccanismo di ricostruzione che abbiamo, e mentre la riforma della Legge Barca sulla ricostruzione guarderà più che altro alla trasparenza nei lavori privati, alle prossime assunzioni e a chi favorire, col 5% dei fondi da destinare alla ripresa economica, si parla infatti di attività culturali, ma senza stabilire i criteri, c’è tutto un ingranaggio lento che non va e che rischia di non andare per i prossimi cinquant’anni, quando le risorse saranno finite e ci rimarrà una città ricostruita a macchia di leopardo, con periferie e borghi storici spettrali. Ma a qualcuno fa comodo che le cose vadano così.