Il 30 ottobre 1961, moriva a Roma Luigi Einaudi, il secondo presidente della Repubblica italiana, il presidente della ricostruzione post bellica. Salvatore Carrubba ha immaginato su IlSole24ore, cosa potrebbe dire oggi il grande statista alle piazze libertarie/liberticide, che combattono non si sa bene per quale principio, di certo tutt’altro che comunitario.
Democratici illiberali, no vax, antipatizzanti del mercato, neo-statalisti di ritorno, nazional-populisti, euro-scettici, giornalisti conformisti e conduttori cinici cadrebbero sotto i suoi strali, tanto più insidiosi quanto acuminati nella precisione delle argomentazioni ed efficaci per l’onestà intellettuale, argomenta Carrubba.
Ai facinorosi di ogni risma, accanto ai neo-fascisti ci sono gli sfascisti, Einaudi certamente riproporrebbe la sua visione della libertà come ‘fatto morale’. E farebbe giustizia della deformazione, oggi tornata in auge anche nelle piazze, di chi identifica la libertà col sopruso e chi non riconosce i limiti alla propria libertà nel rispetto di quella altrui.
Per lui, la libertà – in politica e in economia – non può mai trasformarsi in lotta di tutti contro tutti, non distrugge l’etica, ma è essa stessa costruttrice di moralità: quella che si realizza nel poter perseguire il proprio disegno di vita, di non essere ostacolato dalle pastoie e dalle protezioni degli interessi organizzati, nell’innovare, restando ancorato a una visione morale basata su virtù quali l’intelligenza, l’operosità, la sobrietà, il rispetto per le idee e i beni degli altri, il rifiuto dell’odio sociale.
E poi il mercato che può funzionare solo se regolato e con princìpi morali, scommetto che a Einaudi non piacerebbero molte deviazioni del capitalismo moderno, non sempre granché liberale, per la tentazione, perseguita spesso con successo, di difendere – più che gli spiriti animali basati sul coraggio, l’innovazione e il rispetto reciproco – posizioni acquisite, privilegi oligopolistici e fruttuose collusioni con la politica. E non perderebbe occasione per denunciare quell’«alleanza tra corporazioni pubbliche e interessi privati per creare privilegi (che) ha perseguitato l’Italia fino ai nostri giorni», come disse a Londra nel 2006 l’allora governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, presentando la traduzione in inglese di scritti einaudiani.
Lo Stato non deve stare con le mani in mano, scriveva Einaudi, a sottolineare l’importanza di quanto a esso compete, non governare direttamente l’economia, ma garantire quei presupposti di libertà, di competizione e di iniziativa che nella sua visione rappresentavano le condizioni irrinunciabili per spingere verso l’alto l’ascensore sociale e realizzare una società più equa.
Oggi ammonirebbe i delusi della politica, del principio di rappresentanza e della democrazia liberale come garanzia di una società plurale e vivace e quindi il dibattito e il confronto, nonché le procedure per garantirli e per condurli a decisioni d’interesse comune; e che le scorciatoie violente e intolleranti, il rifiuto delle competenze, il dileggio delle istituzioni possono solo sfociare nel successo dei demagoghi.
Tornare sulle pagine di Einaudi sarebbe oggi quanto mai utile, per consolidare nelle giovani generazioni la fiducia non in un’ideologia, ma nelle istituzioni libere che sono patrimonio comune dei democratici e dei riformisti, Einaudi è patrimonio di tutti, conclude l’autore.
E sicuramente tornare a studiare un po’ di scienza della politica non farebbe male neanche a un aspirante amministratore di un Comune di 300 anime, miglioreremmo la visione e perfino il livello di un dibattito pubblico ormai squalificante sotto ogni punto di vista.