Il fabbricato delle suore Ferrari su via Sallustio sarà demolito e ricostruito come pure un’altra struttura residenziale delle monache della Beata Antonia, sempre su via Sallustio, da quello stesso lato. Due aggregati differenti. Entrambi incongrui rispetto al contesto storico in cui svettano spettrali da 11 anni.
Edifici brutti che non c’entrano nulla con quel che rimane del costruito medievale della città dell’Aquila e che pure l’assessore alla ricostruzione della passata amministrazione, tal Pietro Di Stefano, perito agrario di Cagnano, diceva il mio indimenticato maestro, non ha voluto, per tigna, che diventasse riqualificazione dell’intero abitato. Di fatto che è accaduto, che con il Piano regolatore vigente del 1975, ora come allora, gli edifici del centro storico possono essere sottoposti solo a restauro conservativo, tutti.
L’occasione del sisma avrebbe voluto ribaltare questi paletti ed eliminare le storture edilizie degli anni cinquanta che hanno imbarbarito le urbanizzazioni ed i centri storici di tutt’Italia con scempi edilizi a più piani. Roba brutta in cemento armato che ancor oggi spunta a sfregio tra quel che resta della trama trecentesca perché Di Stefano non volle ripensare l’intero assetto urbano dell’Aquila. Dopodiché qualche consigliere di maggioranza gli fece digerire che ogni demolizione l’avrebbe comunque avallata il Consiglio comunale con un permesso a costruire in deroga. E così è accaduto ieri con le Ferrari e le Clarisse, avremo forse qualcosa di più carino, rispetto al grigiore speculativo di decenni fa, che tuttavia continuerà a fare a cazzotti cento metri più in là, perché centro metri più in là, c’è qualche altra cosa che Di Stefano non ha fatto toccare.
Quel suo com’era e dov’era a tutti i costi che non ha voluto riqualificare gli spazi pubblici in centro e non ha voluto eliminare gli scempi perché per lui non ce n’era bisogno. Per il perito, il centro storico andava benissimo così com’era, dovevamo ricostruire subitissimo e rientrare, volle invece pianificare ambiziosi progetti di ricucitura tra il centro e la periferia per riannodarne i fili. Ma quei progetti, che al contrario per l’allora architetto Gaetano Fontana della struttura commissariale di Chiodi dovevano essere ricostruiti a breve, tanto non c’era granché da fare nell’immediata periferia cresciuta a cavolo come in gran parte d’Italia, sono oggi veri e propri buchi neri, basti guardare il progetto di recupero di Porta Barete che pure un vasto movimento di opinione voleva subito restituito.
Il più antico varco d’accesso alla città sul quale Di Stefano non ne volle comunque sapere. E infatti quella pessima palificata che regge via Roma su via Vicentini è stata una sua idea, che non bloccò neanche quando invece, sotto la spinta forte della gente che rivoleva Porta Barete, dovette imboccare la via dello sbancamento. E a proposito, nel caso, resterà da capire come interverrà a riguardo la Corte dei Conti.
Una ricostruzione a cavolo, dove le periferie restano quartieri dormitorio ed i centri storici, nelle frazioni andrà peggio, costellati di eco mostri in cemento armato tinteggiati di nuovo.
L’architetto Giovanni Cialone di Italia Nostra, con il gruppo di lavoro dell’Itc-Cnr, Aurelio Petracca e Gabriele Petrucci, individuò, in uno studio commissionato dall’Ufficio speciale di Paolo Aielli, gli edifici incongrui del centro storico, cioè quelli che non colloquiavano con l’intorno per dimensione planivolumetrica, caratteristiche tipologiche, caratteristiche dimensionali dei manufatti e superfetazioni. Quello studio avrebbe dovuto sostenere le valutazione degli interventi progettuali post sisma, ma restò nel cassetto dell’assessore Di Stefano. E questa carenza, Di Stefano, se la porterà dietro a vita perché con il suo modo di fare ha segnato per sempre la città. E a noi, è toccato lui.