Come tanti, tutti, il 7 aprile cominciai una nuova vita in cui tutto era diverso e ignoto.
All’epoca ero un dipendente comunale, facevo parte dello staff dell’amministrazione assegnato alla Presidenza del Consiglio comunale, mi sarei dimesso l’anno successivo. Pochi giorni dopo il sisma rimontammo l’ufficio nella tendopoli di Collemaggio e un amico, Lorenzo, ci aiutò a montare la rete ma non successe molto, nel senso che la rete funzionava, eravamo noi che non funzionavamo.
Il mondo politico aquilano non sembrava vivere molto l’enormità del momento, con le dovute eccezioni soprattutto nelle frazioni. Ne ebbi la chiara sensazione in quella tenda quando arrivava qualche consigliere comunale o quando mi ritrovavo in Dicomac, dove il meglio dello Stato era sbarcato per affrontare l’emergenza ma questa presenza sembrava destabilizzante per i locali.
Si lasciava fare, in fondo era conveniente così, la protezione civile avrebbe pensato a tutto, la classe dirigente aquilana avrebbe aspettato sulla riva del fiume cominciando a posizionare le truppe per quando il Dipartimento sarebbe andato via, dandogli la colpa di ogni cosa. Non che il Dipartimento fosse esente da difetti e la conflittualità vista l’enormità di quanto accaduto all’Aquila era normale, ma credevo semplicemente che il senso di orgoglio dovesse prevalere sul senso di sudditanza psicologica o di semplice opportunismo. Fortunatamente tra i tanti, tantissimi aquilani, che si rimboccarono le maniche in quei giorni c’era un mio carissimo amico, Luca D’Innocenzo, all’epoca assessore al Politiche sociali del Comune e, dopo il sisma, con la delega all’Assistenza alla Popolazione. In lui furono immediatamente chiare la voglia di essere all’altezza del sistema di Protezione Civile e la necessità di fare la nostra parte per evitare che la spettacolarizzazione dell’evento lasciasse, a parte le opposte propagande, tanta gente per strada. E’ impossibile ripercorrere qui tutti quei momenti, avevamo 4 telefoni, tre lui e uno io, che squillavano senza soluzione di continuità fino a notte fonda, per le donazioni, il dimensionamento scolastico, le strutture sociali oppure a chiamare erano semplici cittadini, le pressioni e le istanze era tantissime, centinaia e centinaia ogni giorno.
Di solito, in serata, dopo l’ennesima infuocata assemblea nelle tendopoli, andavamo a mangiare nei pochissimi posti di fortuna aperti in città con i pochi aquilani rimasti e le migliaia di volontari giunti in città dopodiché si andava a dormire nei posti più disparati, tendopoli, macchine, case del circondario, case nelle province vicine, dove si preparava anche il lavoro per il giorno successivo.
Dopo un po’, esausti, decidemmo di fissare la nostra dimora al terzo piano di una casa inagibile, una B, nel quartiere del Torrione. Eravamo gli unici abitanti di tutta la zona, dormivamo con molte crepe nei tramezzi e una gamba fuori dal letto, ma avevamo elettricità, acqua fredda e rete internet. La sera per lavorare abbassavamo le tapparelle per non farci scoprire, una volta un gruppo di volontari che passava lì sotto ci sentì e si mise ad urlare, spegnemmo tutte le luci e cercammo di non fare un fiato. Saremmo stati colti sul fatto, proprio in quei giorni infatti – io mi ero nel frattempo spostato di mia sponte a servire presso l’Assistenza alla Popolazione – lavoravamo al censimento della popolazione in vista dell’assegnazione di C.a.s.e. e M.a.p., la madre di tutte le questioni. L’ora X, la fine dell’estate, quando si sarebbe scoperto se L’Aquila avrebbe avuto ancora un futuro o sarebbe diventata una bellissima cittadina di 10mila abitanti svuotata di ogni funzione sovracomunale, stava arrivando. Si doveva correre. La strategia del Dipartimento era chiara, rientro nelle A, riparazione delle B periferiche e piano C.a.s.e., poi con la testa sotto un tetto E e centri storici. Ma i conti non tornavano. Le c.a.s.e non erano sufficienti e non c’era alcuna soluzione per i single, i nuclei da 2 e per gli universitari. La città si interrogava, proponendo intanto soluzioni che oggi fanno sorridere, come le casette su ruota, poi concesse al Comune, che non seppe però mai realizzarle. Noi volevamo essere della partita, cercare di migliorare la situazione, furono anche la testardaggine di Luca, che si impuntò lavorando giorno e notte al dimensionamento, frazione per frazione, situazione per situazione (erp, cooperative, peep ecc..) e la sensibilità di Gabrielli a garantire che gli alloggi aumentassero e che si facessero i map nelle frazioni. Ricordo ancora l’emozione di una lettera molto dura che Luca aveva preparato da inviare a Bertolaso e all’allora prefetto sul fabbisogno di alloggi, che leggemmo e correggemmo decine di volte fino a notte fonda. Poi c’erano i criteri da preparare, che volevamo fossero scelti da noi, dal Consiglio comunale della nostra città, e così fu per quasi l’interezza dei criteri, grazie ad un partecipato lavoro delle commissioni consiliari, e il censimento del quale volevamo essere protagonisti perché non accettavamo il comodo mantra, per gli uni o per gli altri, delle casette di Berlusconi ma volevamo che ci fosse scritto, come poi è successo, Comune dell’Aquila nell’assegnazione, volevamo garantire che le cose venissero fatte nel modo giusto, che l’algoritmo ponderasse tante situazioni particolari che il Dipartimento magari non aveva preso in considerazione non conoscendo la situazione.
Si lavorava ai criteri, alle pezzature, agli universi di sussistenza, ai nuclei, ai punteggi, davanti a decine di excel e di proiezioni aperte, un portatile dentro una casa inagibile contro il dipartimento di Protezione Civile. La discussione intanto in città infuriava, i proprietari non volevano gli affittuari senza capire che gli alloggi non erano la ricostruzione e che gli affittuari erano anche decine, centinaia di aquilani che non si erano potuti permettere un mutuo o dipendenti di uffici regionali o provinciali che semplicemente non avevano comprato casa. Poi italiani contro stranieri. Aquilani del centro contro aquilani delle frazioni. E aquilani da lustri contro aquilani da poco. Questa era la verità. Gli unici criteri che non furono presi in considerazione dal DPC, voluti con emendamenti al lavoro uscito dal confronto tra Giunta e commissioni consiliari, emendamenti della destra e votati da parte del centrosinistra, furono quelli che creavano una misura di aquilanità.
Il principio per tutte e tutti che si decise fu invece la stabile dimora al 5 Aprile del 2009 e quel principio democratico resse alle spinte opportuniste che venivano da larga parte dei nostri concittadini. E così il DPC accolse per intero l’orientamento che Luca fece dare alla Giunta Comunale: l’aggiunta dei MAP nel Comune, la territorialità degli abitanti delle frazioni e una priorità nel rientro nei piani C.A.S.E. fondato sull’urgenza. I primi a rientrare dovevano essere le famiglie con i figli nelle scuole parallelamente al progresso dell’altra condizione per riavere una città dopo l’estate, il piano Musp.
E poi il lavoro, le disabilità, l’università etc… Ci fu anche chi, dimenticando il rapporto demografico tra abitanti del Centro Storico e abitanti dell’intera Città, oltre che l’innegabile difficoltà che un Centro iper vincolato avrebbe comportato nella ricostruzione, sosteneva che la priorità assoluta fosse la ricostruzione del centro storico e non le soluzioni alloggiative provvisorie.
Addirittura a via Rocco Carabba vennero con un volantino per convincere le persone a boicottare il Censimento dei fabbisogni alloggiativi e non richiedere l’alloggio. Una baraonda umana, tra chi non avrebbe accettato case senza piastre, chi inveiva contro Berlusconi, chi a favore.
Fronteggiammo i giorni del censimento a Via Rocco Carabba, i giovani del Dipartimento, per lo più aquilani, uno sparuto gruppo di dipendenti comunali, recuperati dai settori più svariati, Luca e Paola Giuliani, una donna e dirigente che ho visto lavorare come pochi.
Nel frattempo c’era da affrontare la questione degli universitari, per i quali non era stato previsto alloggio ma che riuscimmo a far inserire nel censimento. Credevamo che sarebbe stato uno strumento utile per far emergere il loro fabbisogno, obiettivo che fu ottenuto in parte con la consegna poi della Campomizzi all’Adsu, ma non nella misura che ritenevamo possibile allora mettendo gli studenti alla Finanza e gli aquilani con assistenza nel circondario. Purtroppo avvenne l’esatto contrario con gli studenti, senza assistenza, costretti ad affittare case nei paesi e gli aquilani costretti a rinchiudersi dentro i dormitori in attesa dell’assegnazione.
Dalla risposta massiccia degli universitari dimoranti al 5 Aprile e volenterosi di tornare, nacquero però, oltre la Campomizzi agli studenti, l’estensione del CAS per chi fosse tornato in affitto nell’aquilano e il trasporto dedicato gratuito per tutti gli altri.
Cominciarono infine i colloqui, nulla di orwelliano come riportava certa stampa, ricordo in maniera vivida l’emozione di tante persone che finalmente capivano di poter rientrare in città, anche i problemi, a volte le debolezze di chi magari voleva una casa per la mamma anziana e noi consigliavamo di fare domanda insieme, o il sorriso delle suore che avevano fatto domanda di coabitazione, il pregiudizio e le provocazioni di alcuni obnubilati dalle opposte propagande, soprattutto l’orgoglio mio e degli altri dipendenti dell’Assistenza quando capimmo che il cittadino in quella stanza, dove c’erano anche i funzionari del Dipartimento, delle Forze dell’Ordine sceglieva il dipendente comunale come proprio riferimento nel colloquio, capii in quel momento che quello che avevamo fatto in quei mesi, mentre alcuni in città si riferivano a noi come alla quinta colonna di Bertolaso, fu importante, necessario e utile.
Quei mesi furono una grande scuola per molti aquilani come me.
A volte mi capitava di arrivare molto presto in Dicomac e prendevo il caffè alla macchinetta, una mattina vi trovai davanti Bernardo De Bernardinis. Non so se questo alto funzionario statale meritasse di essere condannato, personalmente penso sia stato un facile capro espiatorio per tutti a tutti i livelli, so che era una delle persone più umili e corrette che circolavano lì dentro, quella mattina mi offrì il caffè e senza dirmi niente mi chiese, con mio sommo stupore, come stai?.
Non avevo capito il senso di quella domanda, mi sentivo bene anche se mi ero appena svegliato, non sembravo messo così male. Intendeva altro e non seppi dare una risposta. Passai quindi la mattina a rimuginare, la gestione era passata in mano alla città, lo Stato stava per andare via, mi chiesi se sarei stato utile ancora nel mio piccolo, mi risposi di no.
*di Alessio Ludovici