31 Mar 22

Verso il 2026, il paesaggio si insegna

Terreni da espropriare e la demolizione di 66 fabbricati per realizzare la tratta veloce Pescara-Roma e la protesta è esplosa nel chietino, da Brecciarola fino a Manoppello per difendere case, terre e paesaggio e ottenere un percorso alternativo, che non tagli con l’accetta il territorio (nella foto), possibile e meno impattante, che ora Rete ferroviaria italiana dovrà accordare.

Il paesaggio non ha mai avuto un ruolo importante nelle politiche urbanistiche dei nostri Comuni, anche L’Aquila, nonostante il sisma devastante del 6 aprile 2009, non è riuscita a ripensare case, costruzioni e piccole infrastrutture nel rispetto del paesaggio. Cioè il paesaggio come elemento cardine della pianificazione non ha mai fatto parte della nostra cultura.

Come sarà il paesaggio italiano nel 2026, quando sarà completato il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza? Nel recente convegno del FAI è intervenuto tra gli altri Bertrand Folléa (nella foto), architetto e docente all’École nationale supérieure de paysage, Versailles-Marseille, secondo il quale il paesaggio, è troppo spesso soggetto a facili semplificazioni.

La prima consiste nel considerare il paesaggio come una conseguenza fortuita, casuale, delle trasformazioni che hanno modificato il territorio, ha spiegato. Questo modo di pensare deriva da un’attitudine del ventesimo secolo che ha contribuito molto alla creazione e diffusione di infrastrutture sul territorio, come centrali, linee elettriche e autostrade. Il periodo era quello dell’uscita dalla Seconda guerra mondiale e della grande disponibilità di energia, allora molto potente e poco cara: erano gli anni della cosiddetta “civilizzazione del petrolio”. Questa accessibilità alle infrastrutture era considerata come “progresso” e dunque il paesaggio, la qualità dei luoghi dove vivevano le persone, non era che la conseguenza di tutta questa modernizzazione che recava benessere alle popolazioni.

Dario Franceschini

La seconda “semplificazione” è quella che considera il paesaggio come una cartolina o un quadro, immutabile nel tempo. Anche questo è riduttivo perché sappiamo bene che il paesaggio in realtà evolve ogni giorno attraverso le azioni di tutti gli attori del territorio, fino agli stessi abitanti dei luoghi, fino a noi stessi, quando costruiamo casa nostra, ridipingiamo le imposte, o cambiamo la recinzione. Questa  posizione è in un certo senso reattiva e di difesa nei confronti del paesaggio; in realtà sappiamo bene che non è possibile proteggere tutto il territorio in modo coercitivo. In Francia, stimiamo chele protezioni “forti” coprono solo 113% del territorio nazionale. Dunque, il restante 97% si trova al di fuori delle nostre azioni di tutela.

C’è poi una terza “semplificazione”, che può essere vista come un compromesso delle prime due, che consiste nel confondere il paesaggio con quello che chiamo il paesaggiamento, ovvero l’insieme delle azioni e delle trasformazioni operate dall’uomo sul paesaggio. La trappola di questa “semplificazione” è che naturalmente alle popolazioni piace l’idea di paesaggiare: piantare alberi, arbusti in seno e a favore delle azioni di pianificazione territoriale.

Il paesaggio si riduce così a una funzione decorativa, che opera a valle di scelte di pianificazione molto impattanti, che vanno a incidere fortemente sulla qualità del nostro contesto e del nostro stile di vita. In questo modo il paesaggio sfugge alle grandi decisioni di pianificazione del territorio e ci ritroviamo a occuparcene alla fine dei cantieri, quando tutto è già realizzato e le risorse economiche sono esaurite. Inoltre, ci si accontenta così di operare accanto alle infrastrutture: a lato delle strade, delle costruzioni, dei quartieri. Non si è mai al cuore, al centro degli interventi.

La conseguenza di queste tre ‘semplificazioni’, ha rilevato ancora l’architetto, è che la nozione di paesaggio non è compresa dalla nostra società. Sono pochi i politici che parlano di paesaggio e che lo considerano una loro responsabilità. Abbiamo anche un problema di comunicazione: non si parla delle ambizioni che abbiamo per il paesaggio.

E c’è una cultura, figlia dell’ingegneria e della tecnica, che non si fida del paesaggio, perché porta con sé una dimensione sensibile, soggettiva. Preferiamo la razionalità scientifica, più rassicurante, la realtà delle cifre a quella vissuta dalle popolazioni, più sensibile e qualitativa.

Roberto Cingolani

È importante prendere coscienza di queste tre “semplificazioni” per superarle. In fondo, la nozione di paesaggio è molto semplice e “unificante”. Proprio in Italia, a Firenze, nel 2000 è stata redatta la Convenzione europea dei Paesaggio, che interessa i 48 Paesi del Consiglio d’Europa. Personalmente, ciò che più mi colpisce della definizione di paesaggio ivi espressa è la sua dimensione doppiamente relazionale. Riguarda infatti le relazioni tra gli elementi oggettivi e tangibili di un territorio – campi, quartieri, strade, ma anche edifici, infrastrutture, suolo, geologia, clima – e gli elementi sensibili, che riguardano le relazioni affettive, soggettive, culturali tra le popolazioni e il territorio.

La virtù della nozione di paesaggio è quella di non separare queste due dimensioni relazionali. Nel paesaggio non si ha mai una separazione tra cultura e natura, tra scienze oggettive e scienze umane, e non c’è alcuna separazione tra il contesto in cui viviamo e il nostro stile di vita.

La transizione ecologica è un’azione che va a toccare sia il contesto che lo stile di vita. Faccio un esempio: se trasformo una strada, riducendo lo spazio riservato alle automobili per aumentare lo spazio utilizzabile dalle biciclette, in realtà trasformo il contesto per arrivare a una trasformazione dello stile di vita.

Dunque, questa relazione stretta tra il contesto e lo stile di vita è tenuta insieme dalla nozione di paesaggio. Ed è proprio trasformando allo stesso tempo contesto e stile di vita, conclude il docente, che si concretizza la transizione, che è un passaggio da una relazione con il pianeta molto dipendente dal consumo di energia fossile verso un’altra che si avvale di fonti d’energia rinnovabile “decarbonizzando” così i nostri stili di vita.

Da questo punto di vista teorico il paesaggio è il percorso che permette di concretizzare la transizione ecologica, superando le tre “semplificazioni”: non considerare più il paesaggio come una conseguenza casuale delle trasformazioni del territorio ma, al contrario, considerarlo la causa comune: è una sorta di rivoluzione concettuale, metodologica, in ambito di pianificazione del territorio.

Riusciremo mai a cambiare ottica? Approccio? Prospettiva? Visione?
Hanno mai ragionato insieme i ministri Franceschini (paesaggio) e Cingolani (transizione ecologica)?