17 marzo, anche oggi, all’Aquila, abbiamo tirato un sospiro di sollievo, per il momento le cose vanno bene, fortuna, scarsa densità abitativa ma, diciamocelo, forse anche il fatto di esserci già passati, abbiamo già percorso l’infernale strada di un’emergenza e della sua gestione, delle sue dinamiche sociali e istituzionali.
Oggi, 11 anni dopo, le strade della città sono sostanzialmente vuote, le istituzioni hanno risposto senza panico o azioni estemporanee, con buon senso e con azioni necessarie, i cittadini sostanzialmente rispettano le regole, se escono lo fanno con attenzione, i commercianti si sono attrezzati per far rispettare le file, non ci sono state corse agli acquisti. Anche chi controlla sta lavorando con discrezione e buon senso, senza creare tensioni che potrebbero ingenerare comportamenti errati, ai fini dell’obiettivo che è quello di evitare il contagio. Non sono mancate e non mancano le preoccupazioni, dai cantieri all’ospedale, all’esodo di tanti romani nei Comuni del territorio.
A palazzo Fibbioni le luci sono sempre accese, e l’Ufficio di Protezione Civile del Comune sta dimostrando di essere lucido e organizzato, del resto abbiamo un certo know how. Non è così dappertutto in Italia, tutt’altro. Oggi è l’anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, un’unità raggiunta per gradi, dai Comuni, alle signorie, ai primi stati e infine l’unità. Oggi la penisola sembra attraversata, al netto di bandierine e canti, da un percorso inverso, dall’italiano, alla risposta dei governatori regionali e adesso al protagonismo fuori luogo di sindaci ed enti territoriali, ognuno per la sua strada.
C’è il sindaco che vieta il gioco delle carte, l’altro che ha stabilito che a piedi, per uscire il cane o prendere una boccata d’aria, si può uscire tutti alla stessa ora, dalle 16 alle 18. C’è un sindaco che ha mandato le forze di polizia locale a terrorizzare i propri concittadini non appena mettono il naso fuori dalla porta, con il risultato di accentuare tensioni, risse, liti. Un altro ha normato la distanza massima percorribile con il cane. Altri vietano la vendita dei gratta e vinci, alcuni senza casi, si sono più o meno proclamati repubblica autonoma, altri pur avendo molti casi, ancora non sono in isolamento. Ci sono grandi città che hanno chiuso parchi, colline, non si sa bene sulla base di quali criteri, sicuramente molti comuni hanno riscontrato delle criticità ma c’è, insomma, un proliferare di norme, vincoli e ordinanze da azzeccacarbugli, che sembrano più il frutto di istanze propagandistiche, indipendentemente dai colori politici, che dell’effettiva preoccupazione di contenere il virus. In alcuni supermercati è fatto divieto di comprare penne e quaderni, in altri non si possono prendere le pentole.
Nel frattempo però questa settimana la gente morirà di lavoro, di o con il coronavirus, perché in troppi comuni anziché verificare se nei supermercati ci sono le condizioni per lavorare, ci si preoccupa di mandare i vigili a dare il coprifuoco per le strade. Ci si preoccupa di controllare i clochard, che già vivono per strada, già gli hanno chiuso le mense e ora sono oggetto di ammende e procedimenti penali in tutt’Italia, una vera vergogna.
Non ci si preoccupa, però, di controllare un autobus che porta la gente a lavoro, per vedere se è pieno, se magari se ne può togliere uno dove ora non serve, e spostarlo sulle tratte più frequentate.
E’ l’Italia del particulare, dell’infinitamente piccolo, di milioni di capipopolo senza popolo, dell’ipocrita caccia al colpevole, mentre nel frattempo milioni di persone lavorano, prendono autobus pieni zeppi di altri lavoratori, nelle grandi città italiane.
*di Alessio Ludovici