E’ morto Raffaele Colapietra, l’ultimo storico della città dell’Aquila di cui conosceva tutto perché studiava, leggeva, approfondiva e si appassionava. E con lui se ne va un mondo, ormai desueto, perché il professore parlava con tutti e rispondeva a chiunque con l’umiltà della conoscenza e la schiettezza delle persone libere, lontane dalle sovranità politiche degli ultimi decenni che, scegliendo i propri intellettuali, determinano strategie e tendenze.
La cultura prima di tutto, non era di destra e non lo nascondeva, ma la conoscenza era la priorità. La trasmetteva, la divulgava a braccio, la condivideva sol quando intuiva un genuino interesse a sapere. Si lasciava interrompere, per poi riprendere il filo dell’argomento, che trattava non senza porre interrogativi all’interlocutore, così da essere certo di percepirne lo spirito acuto, senza intravedere il quale, di certo non amava dilungarsi.
L’Archivio di Stato, la Biblioteca “S. Tommasi”, perderanno un assiduo frequentatore di storia e di storie, quelle aquilane di difficile traduzione e lettura nelle cronache di Buccio di Ranallo, che conosceva e raccontava a menadito senza scorciatoie virtuali, direttamente dal Medioevo, tramandando la conoscenza della nostra città e attraversando i secoli come in una letteratura contemporanea leggibile, facile, interessante, accessibile e bella.
Non so quanto la cultura debba essere realmente di tutti, tanto e tale è lo sfregio dei sunti digitali, alla portata di chiunque debba fare sfoggio di un certo sapere, magari perché di potere, Colapietra aveva insegnato e questa sua missione si percepiva nell’arte e nella semplicità con cui raccontava la storia, come se fossimo tanti studenti, attenti a fare bella figura e a pesare le risposte, temendo il giudizio di un professore netto e schietto, che non avrebbe mai risparmiato un appunto tagliente.
Di certo, lo storico Colapietra, non lascerà eredi.
Lo immagino ancora tra i libri dell’Archivio di Stato, e poi a pranzo nella trattoria di fiducia, come ogni giorno e alla stessa ora, per poi rincasare in viale Pescara, tra i suoi libri e in compagnia dei suoi gatti. Della storia dell’Aquila non aveva mai perso il filo, neanche con la tragedia del 6 aprile 2009, L’Aquila non era già una città al 6 aprile 2009, osservò qualche anno dopo il sisma, Pettino s’era estesa ed esplosa urbanisticamente in maniera mostruosa, il quartiere più ambito, nonostante lì ci fosse una faglia importante, e lì, abbiamo ricostruito anche dopo il 2009. Gli aquilani dovevano arrangiarsi, dichiarò pochi anni dopo il sisma, invece di abbandonare il cuore antico e pulsante della loro vita, il professor Colapietra abitò la sua casa ed il centro da solo per molto tempo, il silenzio non mi fa paura, assicurò, mi fa paura la città che muore.
La città non è morta, ma la comunità aquilana è dispersa.
E’ stata subito evacuata, rilevò lo storico, non rimase come nel terremoto del ‘700, quando la gente toglieva le macerie e metteva le baracche in piazza, in quelle baracche andarono anche le famiglie, andavano tutti, si stava insieme e si scriveva la storia che oggi leggiamo.
Quella storia che dal 2009 in fondo mancherà, tanto siamo ancora disgregati, ma non resta altro da fare che prenderne atto e rammaricarsene, commentava Colapietra, e di più non si può fare oggi, senza riappropriarsi di un’identità e del fare comunità.