In occasione dell’8 marzo l’Unione Sindacale di Base presenta il quaderno I lavori delle donne tra produzione e riproduzione sociale, il secondo dopo Donne sull’orlo di una crisi di numeri del 2019.
La donna è un ammortizzatore sociale in sostituzione del welfare universale in via di smantellamento. Una condizione che viene sempre più considerata connaturata, al punto che si riesce a estrarne gratuitamente un incredibile valore economico.
La riproduzione sociale è il tempo di vita impiegato per produrre lavoro non salariato. Ha una connotazione biologica (gravidanza, parto, allattamento), e una lavorativa, includendo i lavori domestici, di cura, formazione, educazione, appoggio psichico e fisico, affettivo, relazionale. Una quantità enorme di occupazioni che ricadono quasi esclusivamente sulle spalle delle donne, native e migranti, ma invisibili perché gratuite. Alcuni numeri danno un’idea più precisa.
In Italia la riproduzione sociale equivale annualmente a 71 miliardi e 364 milioni di ore di lavoro gratuito (41 miliardi e 794 milioni le ore di lavoro salariato), per un valore di 557 miliardi, pari al 34% del Pil. Per il 71% (50,7 miliardi di ore, 395 miliardi il valore) la riproduzione sociale è garantita dalle donne.
Una casalinga dedica al lavoro non retribuito 6h58’ al giorno, contro 4h8’ delle donne occupate e 1h47’ degli uomini occupati, ultimi insieme ai greci nella classifica del lavoro non retribuito nella Ue. Al contrario le italiane, insieme alle romene sono al primo posto per quantità di tempo speso nel lavoro di cura: 5h02’.
Il lavoro domestico di routine, il più dequalificante, che rappresenta il 74,4% della riproduzione sociale, con un valore di 415 miliardi, è per il 75,6% sulle spalle delle donne. Quello di cura vale 81 miliardi e anche qui le donne fanno la parte delle leonesse: 66,6%, rileva ancora USB in una nota.
Non va meglio nel lavoro salariato, dove le donne sono forza lavoro più flessibile, più ricattabile, meno pagata, sotto inquadrata e più facilmente licenziabile. In termini di partecipazione delle donne alla vita economica l’Italia ha perso dal 2006 ben 30 posizioni nella classifica del World Economic Forum: da 87^ a 117^. Ne ha persi 6 in un solo anno in quella della disparità di genere (che considera partecipazione alla vita economica, salute, istruzione e politica): 76^ su 153 Paesi.
Non può essere diversamente, se nel 2018 il 31,5% delle donne nella fascia 25-49 anni non ha cercato lavoro perché impegnate nella maternità e nella cura, contro l’1,6% degli uomini. Non lo hanno fatto il 65% delle donne con figli fino a 5 anni e il 6,5% degli uomini. La cura dei bambini assorbe 5,7 miliardi di ore, per un valore di 44,1 miliardi prodotto per il 70,8% dalle donne. Più equilibrata la cura di disabili e adulti conviventi: le donne si fanno carico del 57,4% degli 825 milioni di ore (6,4 miliardi il valore).
L’attività di cura e assistenza espone peraltro le donne alla povertà in vecchiaia, perché vittime di un lavoro salariato discontinuo e di stress che attiva le malattie, producendo una vecchiaia di salute malferma. Nel 2018 una donna di 65 anni aveva un’aspettativa media di vita di 22,5 anni, 12,7 dei quali con limitazioni nelle attività; un coetaneo aveva un’aspettativa di vita di 19,3 anni, 9,3 dei quali con limitazioni.
Il mito della maternità si scontra oggi con contesti lavorativi precari, senza diritti, sullo sfondo dell’assenza di servizi pubblici, producendo declino demografico.
La destrutturazione dei servizi pubblici penalizza i ceti sociali deboli e arricchisce i soggetti privati che si sostituiscono ai servizi diretti dello Stato. Occupando soprattutto donne (68%) con bassi salari, basse qualifiche, alta precarietà e basse ore lavorate.
La svalutazione del lavoro di cura si riflette in quello fornito dall’esercito delle badanti, circa due milioni tra regolari e sommerse, soprattutto straniere (77%), massa invisibile e silenziosa che lavora in subappalto per altre donne meno svantaggiate.
La dismissione dei servizi pubblici produce inoltre la retorica della conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, il cui punto di partenza è che siano le donne a occuparsi del lavoro riproduttivo. Nascono così i miti del part time, quello involontario vale il 12,3% dell’occupazione, con salari tra i 580 e i 760 euro al mese, del telelavoro, dello smart working e del welfare aziendale, che introducono ulteriori elementi di flessibilità cancellando proprio la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro.
Salari inferiori, ricattabilità e precarietà stanno inoltre femminilizzando il mercato di un lavoro che è sempre più povero e senza diritti, di cui sono vittime 5milioni di persone.
Da questa condizione generalizzata si esce solamente con provvedimenti in grado di invertire la direzione, che secondo USB sono un reddito di base incondizionato, salario minimo legale, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, welfare universale, diminuzione dell’età pensionabile, massicce assunzioni nella pubblica amministrazione, sostegno alla maternità e genitorialità condivisa, conclude la nota.