A ogni tornata elettorale ridonda il ritornello delle frazioni abbandonate. 49 frazioni, per lo più bruttine, nate male, cresciute peggio, che pure reclamano attenzione. Quell’attenzione che mancò nel Piano regolatore del 1975, che le definì zone di ristrutturazione, senza né vincoli né centri storici, e che è mancata nel post sisma, quando piovevano piani e proposte da tutti gli atenei del mondo, che cercavano di accaparrarsi progetti, mentre noi non ne avevamo proprio.
Nelle frazioni ha sempre comandato la politica della fontanella con il consigliere eletto a tenere banco, ancor oggi siamo nella palude di territori che vogliono essere considerati ma non sono affatto inclini alla condivisione, eppure dovrebbero cambiare ottica, perché se il centro storico dell’Aquila è la culla degli uffici pubblici, dei Quarti da rivitalizzare, dell’artigianato da incentivare, dalle persone da far rientrare insieme agli uffici, con un’innovata sostenibilità/vivibilità, sempre che si riescano a vincere le troppe resistenze alla pedonalizzazione e a un cambiamento radicale che il commercio combatte da secoli, le frazioni dovrebbero recuperare identità e anima.
Quel che resta di quel che possiamo chiamare a tratti borghi, vorrebbe diventare nella mente dei proprietari solo case nuove, aumenti di cubature, meno umidità, più luce, cemento, tutto moderno e d’altra parte riqualificare contesti con proprietà indivise, cantine mai accatastate, eredità mai spartite, cubature senza una destinazione urbanistica è oggettivamente impossibile. Quindi dire oggi, a tredici anni dal terremoto, che le frazioni sono abbandonate, significa abbaiare alla luna senza senso.
Già prima del sisma, i proprietari delle vecchie casette nel cuore delle frazioni avevano scelto la luce e il cemento dell’immediata periferia, e oggi vogliono ricostruire comunque, tornare a viverci neanche a parlarne, ma solo raddoppiare o triplicare, accatastare e aumentare la rendita, sperimentare nuove vocazioni figuriamoci, sedersi a tavolino con tutte e 49 i territori, il capoluogo e le amministrazioni vicine, roba che per carità e quindi siamo sempre più lontani da un’idea di riqualificazione che non sia solo case, ma case in cui scegliere di vivere, rivitalizzazione, vicinato, prossimità, suddivisione di funzioni e carinerie di cui parecchia gente, che è nata là e là passerà il resto della vita, non sa proprio cosa farsene.
Ci aveva provato l’architetto Fontana nella fase emergenziale del post sisma, prevedendo addirittura aree omogenee che abbracciassero l’intero cratere 2009, per seminare una città territorio e lavorare di squadra su una popolazione complessiva, che comunque gravita intorno alle funzionalità direzionali e commerciali aquilane, disseminate ancora nelle aree industriali perché lì trovarono spazio all’indomani del 6 aprile. Non ci siamo riusciti non ci abbiamo nemmeno provato perché non è nel nostro dna.
Una frazione va forte, e così il consigliere eletto, se riesce a portare qualcosa esclusivamente sul proprio territorio, e le elezioni una nuova occasione per portare a casa sempre di più e sempre più voti, tutto qua.