Un Piano nazionale per affrontare un’emergenza pandemica esisteva, per quanto fermo al 2006, un ‘manuale di istruzione’ che comunque aveva le indicazioni necessarie per affrontare una malattia come il Covid. Quel Piano però, scrive il microbiologo Andrea Crisanti nella relazione di 83 pagine al centro dell’inchiesta per epidemia colposa della Procura di Bergamo, fu secretato per non allarmare e scartato a priori senza essere valutato dai principali organi tecnici del Ministero, ai quali l’ex ministro Speranza fa riferimento quando afferma che il piano era datato e non costruito specificamente su un coronavirus ma su un virus influenzale. Una giustificazione secondo Crisanti confezionata e coordinata a posteriori, perché dai documenti acquisiti e dalle dichiarazioni spontanee rese alla Procura di Bergamo è emerso che né Brusaferro, né Miozzo, né Urbani avessero letto il piano prima di maggio giugno 2020 nonostante ne avessero ricevuto copia a febbraio 2020. Tra gli indagati a vario titolo dalla procura bergamasca, l’ex premier Giuseppe Conte, l’allora ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e l’ex assessore regionale al welfare Giulio Gallera.
Nella sua relazione, Crisanti attribuisce la responsabilità della mancata attuazione del Piano a cinque persone: Claudio D’Amario, direttore della Prevenzione del Ministero della Salute; Silvio Brusaferro, direttore dell’Istituto superiore di sanità; Agostino Miozzo, coordinatore del Cts; Giuseppe Ruocco, segretario generale del Ministero e Luigi Cajazzo, direttore generale della Sanità di Regione Lombardia. Citati anche l’ex premier Conte e il presidente del Consiglio superiore della sanità Franco Locatelli. Crisanti scrive come l’allora ministro Speranza il prof Brusaferro, il dott. Miozzo, il dott. D’Amario erano a conoscenza del Piano Covid, degli scenari di previsione e della gravità della situazione e presero la decisione di secretare il piano per non allarmare l’opinione pubblica. Circostanza di cui erano a conoscenza anche i vertici della Regione Lombardia. Proprio a proposito della mancata zona rossa in Val Seriana, Crisanti spiega che nelle decisioni in quei giorni tra febbraio e marzo 2020 non ha prevalso l’esigenza di proteggere gli operatori del sistema sanitario nazionale e i cittadini dalla diffusione del contagio. E sul perché non sia stato deciso prima di chiudere quelle zone, Crisanti aggiunge, la ragione per la quale azioni più tempestive e più restrittive non sono state prese la fornisce il presidente Conte quando, nella riunione del 2 marzo 2020, afferma che la zona rossa va utilizzata con parsimonia perché ha un costo sociale politico ed economico molto elevato.
Già tra il 27 e 28 febbraio 2020, riporta la relazione del microbiologo, il Cts e il ministro Speranza avevano tutte le informazioni sulla progressione del contagio che dimostravano come lo scenario sul campo fosse di gran lunga peggiore di quello ritenuto catastrofico. E le informazioni sulla gravità della situazione ad Alzano e Nembro furono oggetto di una riunione del Cts del 2 marzo non verbalizzata ufficialmente alla presenza del ministro Speranza e del presidente Conte. Speranza e Conte raccontano alla Procura di Bergamo di essere venuti a conoscenza del caso di Alzano e Nembro rispettivamente il 4 e il 5 marzo. Sui tavoli del Governo e degli esperti del Cts c’erano tutte le informazioni e gli strumenti per valutare la progressione del contagio e comprendere le conseguenze in termini di decessi. Il riferimento è al modello matematico elaborato dall’epidemiologo Stefano Merler, che aveva previsto uno scenario con indice Rt superiore a 2 che avrebbe messo in seria difficoltà il sistema sanitario. A quel punto, scrive Crisanti, il Cts e il ministro Speranza condivisero la decisione di secretare il Piano Covid… per non allarmare l’opinione pubblica. Nella riunione del 2 marzo del Cts, il dott. Miozzo stese il verbale che non condivide con nessuno e rimane in suo possesso. Ad Alzano e Nembro già il 27 febbraio l’indice Rt era arrivato a 2. Dato noto al Governo e alla Regione Lombardia. Eppure per 10 giorni non vennero prese azioni più restrittive.
Per tutta la settimana tra il 2 e il 6 marzo il Governo era stato a un passo dall’istituzione della zona rossa nei due Comuni della Val Seriana, dove stava emergendo il focolaio più grave. Mancava però un ultimo passo, scoperto nella perquisizione: alla fine del foglio c’era la firma dell’allora ministro della Salute Roberto Speranza, ma non quella del premier Giuseppe Conte. Speranza era intenzionato a seguire le indicazioni del Cts del 3 marzo, che spingeva per la zona rossa in quei due Comuni. Conte tentennava, fino a decidere per la zona rossa su tutta la Lombardia nella notte tra il 6 e il 7 marzo. Quel dettaglio ha portato la Procura di Bergamo a indagare l’ex premier per la mancata zona rossa, che secondo gli inquirenti avrebbe potuto evitare almeno 4mila vittime. Speranza invece non viene chiamato in causa, se non per la mancata applicazione del Piano pandemico, che ogni paese dovrebbe attivare su richiesta dell’Oms.
Ho lavorato 18 mesi a questa perizia, che ha richiesto la lettura di decine di migliaia di pagine, e centinaia di provvedimenti. La cosa particolarmente preminente che mi ha guidato, spiega Crisanti, è stata la volontà di contribuire a dare ai familiari delle vittime una ricostruzione della verità di quel che è successo.