Natura e spiritualità è un binomio che aderisce perfettamente a quei luoghi sparsi nell’intero pianeta capaci di suscitare ancora oggi reazioni emotive di particolare intensità. Tra questi, non pochi appartengono all’Abruzzo, scrive in un approfondimento la direttrice del Polo Museale d’Abruzzo Lucia Arbace, una terra che parla da sola di immense risorse naturalistiche legate ad una geografia generosa e magica, se si scava poi nella storia della Regione negli ultimi secoli si riscontra che a questo stesso binomio è strettamente collegato un fervore religioso di notevole spessore, stimolato dall’esigenza di dare una risposta di fede a condizioni di vita particolarmente aspre e difficili. Sin dai confini della preistoria, con una compiuta evoluzione al tempo delle gens italiche le armi erano una dotazione indispensabile per ogni giovane maschio, soprattutto per fronteggiare una quotidiana difesa. Ercole era diventato l’eroe di casa, soprattutto per aver sconfitto il più feroce degli animali, il leone.
Anche Pietro da Morrone guadagnò seguaci con un’esperienza mistica sviluppatasi soprattutto in montagna, in aperta e continua sfida con condizioni avverse alla sussistenza umana. A ciò fece seguito, da parte dello stesso eremita, divenuto papa Celestino V, la fondazione di un ordine religioso che aveva adottato il dettato benedettino, dell’ora et labora, nella piena consapevolezza del difficile rapporto con il territorio vissuto e accettato dalle genti nella sua dimensione più genuina. La natura madre e matrigna, grazie ai celestini, si è tinta di significati religiosi, destinati a riscuotere presto un grande successo.
Basti pensare all’espansione della congregazione nel primo Cinquecento, con monasteri in tutta Europa, dalla Spagna all’estremo nord, con una distribuzione che sarebbe risultata ancora più massiccia se non fosse stata osteggiata dalla Riforma di Lutero. La religione cattolica non fu però sconfitta dal protestantesimo tant’è che in una città profondamente laica nel 1630 un bambino figlio di un sarto fu battezzato con il nome di Carlo Borromeo, il santo che fu anima e guida della Controriforma, moralizzatore e tenace avversario degli eretici. Dopo anni di successi come pittore di quel genere amatissimo dagli aristocratici del seicento che furono denominate cacce, Carl Borromaus Ruthart si fece oblato e poi monaco celestino.
Tracce importanti della sua lunga attività, di fede e di arte insieme sono custodite ancora oggi nel Museo Nazionale d’Abruzzo, provenienti in gran parte dal Monastero di Santa Maria di Collemaggio: trenta dipinti tra bozzetti per il ciclo realizzato per la basilica aquilana, ritratti di celestini, paesaggi e nature morte, restaurati per l’occasione grazie al concorso di associazioni e di fondi ministeriali, sono proposti in mostra a Danzica dal 28 febbraio al 31 maggio 2019, assieme a molti altri in prestito da diversi musei europei, nella Green Room, il suggestivo refettorio dell’antico monastero che oggi ospita il Museo Nazionale. Si celebra così un artista di grande valore, ammiratissimo e conteso dai collezionisti d’arte del suo tempo, assai apprezzato ancora oggi, il quale guadagnò la sua prima menzione ancora vivente nelle Memorie di viaggi per l’Europa cristiana del 1685. E fu proprio l’abate Pacichelli, autorevole fonte contemporanea, a coniare l’epiteto di pittore Celebre nelle cacce e a tramandare la sua provenienza dalla città di Danzica.