Ora che sono vecchio e dovrei essere anche saggio, i giovani mi chiedono se ci sono davvero dei buoni maestri che t’insegnano a superare le difficoltà della vita e ti consigliano per fare un buon lavoro. Che tipo di buon maestro? Ne ricordo alcuni.
Mario Soldati, lo scrittore, era un uomo geniale e imprevedibile, scriveva romanzi e dirigeva film, era un uomo pratico. Quanti tavoli hai nel tuo studio?, mi chiese quando lo incontrai per un’intervista. Ho una scrivania, gli dissi, quante dovrei averne? Tavoli, disse lui, non scrivanie, almeno tre tavoli, lunghi e larghi, da tenerci su, a portata di mano, ciò che ti occorre: libri, dizionari, penne, matite, nastro adesivo, forbici, bianchetto. Tu fumi? Sigarette? Sbagli, meglio il Toscano, una scatola di Toscani sul tavolo con fiammiferi svedesi e portacenere, almeno quattro, perché chi ti visita sparge la cenere dappertutto. E le macchine per scrivere: almeno due, in caso una si rompa; e i tuoi libri, da cui puoi sempre ricopiare qualcosa, perché nulla è più inedito di ciò che è stampato. E anche fiori, e caramelle alla menta. Ti piacciono? Era simpatico, Soldati, un buon maestro.
Era un buon maestro anche Elio Vittorini, formidabile organizzatore di cultura, che fece la prima antologia della letteratura americana, per farci capire che Pascoli e Carducci, Dante e Boccaccio erano indispensabili, e che anche Gide e i francesi non potevano mancare, ma c’erano anche gli altri di lingua inglese.
Era un buon maestro anche Alberto Moravia (nella foto), di lui si sapeva come lavorava, come si doveva lavorare: di mattina, dalle dieci a mezzogiorno, secondo il metodo delle duecento righe al giorno, senza aspettare l’ispirazione, come un buon cottimista che fa regolarmente il suo lavoro.
Ora che sono vecchio e devo essere anche saggio, posso dare qualche consiglio ai giovani: attenti al perfezionismo. Tommaso Besozzi, il giornalista che rivelò la vera morte del bandito Giuliano, ucciso da suo cugino Pisciotta per conto dei carabinieri, non usava mai una parola più del necessario, scriveva cronache essenziali, pure e dure come un diamante. Un giorno che gli finì la voglia e la capacità di restare in quella sua perfezione, andò nel pollaio della sua casa di campagna, tolse la sicura a una bomba a mano e se la fece esplodere nel petto, come un kamikaze del buon giornalismo. Certo una simile fine disperata ed eroica non la consiglio. Il perfezionismo è una malattia diffusa tra i cronisti.
Per anni consumai migliaia di fogli buttati nel cestino al minimo errore, ne venni fuori solo con un atto di modestia: accontentati di scrivere come puoi, come sai, con gli errori che fai, con le ripetizioni, le inesattezze, le citazioni sbagliate. Non sei un genio, sei un operaio della scrittura, fai, come Moravia, il tuo cottimo, la tua produzione giornaliera.
Posso anch’io entrare nella parte del buon maestro? E allora vorrei dire ai giovani: per favore non ricominciamo con l’ermetismo, con la scrittura per pochi, da decrittare, con gli snobismi di gruppo, con le lettere per pochi. Forse l’Ecclesiaste sarà un po’ misterioso, come il velo del tempo, e i sonetti di Shakespeare a chiave, ma la grande letteratura, la buona letteratura è chiara.
Non date ragione a Kierkegaard o ad altri odiatori del giornalismo, manipolatori d’idee e inventori di falsi bisogni. Parla come mangi, dice il proverbio, parla e scrivi chiaro.