A mezzo secolo di distanza il sisma che devastò la Valle del Belìce, primo terremoto distruttivo del dopoguerra. Otto anni dopo, quello del Friuli. Così il presidente Mattarella al 50° anniversario. Centodieci anni fa erano state colpite Reggio Calabria e Messina, con oltre 100mila morti, la prima devastazione di queste proporzioni a ferire l’Italia unita.
Nel 1970, due anni dopo il terremoto in Sicilia, la prima legge sulla Protezione civile. Contemporaneamente un’altra legge, due anni prima di quella sull’obiezione di coscienza, prevedeva per i giovani del Belìce la possibilità del servizio civile in luogo di quello militare. Questa zona ha sollecitato l’intero Paese, per più aspetti a rinnovarsi..
La sequenza sismica che seguì a quella notte del 14 gennaio 1968 si protrasse quasi per un intero anno. Se possibile, una sofferenza aggiuntiva a quelle delle morti e delle distruzioni. Chiunque sia stato pesantemente colpito da un terremoto può testimoniare come le scosse e la catastrofe che provocano, accanto ai lutti e ai danni materiali, lascino tracce irreversibili negli animi. Al disastro naturale in questi centri si aggiunse un ulteriore danno sociale, che non si riuscì a evitare, e che toccò famiglie e comunità, con episodi di emigrazione verso il Nord Italia e verso l’estero che coinvolsero migliaia di siciliani. Un ulteriore dissanguamento per queste terre.
La risposta elaborata da parte delle pubbliche autorità intendeva essere ambiziosa: non solo provvedere alla semplice ricostruzione delle case e dei paesi distrutti, ma avviare, altresì, politiche di sviluppo che valessero a sottrarre la Valle del Belìce alla sua condizione di ritardo. Questo alla base del Decreto legge varato dal Governo Moro il 22 febbraio successivo.
L’equilibrio tra funzione dello Stato, funzione della Regione, ruolo ed effettiva partecipazione alle scelte da parte della popolazione locale, non si è sempre composto in modo armonioso e positivo, gravando sull’ efficacia degli interventi.
Profonde le trasformazioni: interi paesi riedificati in nuove aree, con architetture e scelte urbanistiche figlie di visioni nuove, talvolta con l’aspirazione ad affidare all’arte la ricerca di una identità proiettata verso la modernità.
Accanto alle rovine abbandonate, a villaggi fantasma che si stagliano all’orizzonte, si sono aggiunti, non senza sofferenza, centri abitati della ricostruzione, luoghi nei quali non è sempre stato facile riconnettere i legami delle collettività così duramente percosse, ricollocandovi appieno le identità perdute.
Accanto ai ruderi – monito permanente: è doloroso separarsi dai simboli in cui ci si riconosce, il campanile, il palazzo del Comune, che hanno marcato un’appartenenza – la memoria collettiva si nutre del Museo voluto a Santa Margherita Belice, nella chiesa madre, con l’obiettivo di testimoniare l’immagine e i valori di questa terra.
Le iniziative di mobilitazione popolare hanno sempre accompagnato, fin dalla discussione in Parlamento del decreto legge sulla ricostruzione, le vicende di questo mezzo secolo.
Come non ricordare, fra le altre, la voce di mons. Riboldi, allora don Antonio Riboldi, parroco di Santa Ninfa, scomparso di recente, animatore della storica lettera dei ragazzi delle scuole elementari e medie, rivolta ai parlamentari; e del “viaggio della speranza”, come ebbe modo di definirlo lui stesso, con i piccoli che incontrarono, a Roma, Sandro Pertini, Aldo Moro, Giovanni Spagnolli, Giovanni Leone, massime autorità della Repubblica.
Oggi facciamo memoria del passato, e, insieme, vogliamo ricucire gli elementi della storia di comunità allora lacerate dal terremoto. E’, per citare ancora don Riboldi, il “misurarsi sulla storia”. Una storia che di strada ne ha fatta nonostante insuccessi e ritardi. La strada percorsa dal Belìce, terra di produzioni di qualità, con iniziative sperimentali, di turismo, con la volontà di impegnarsi per consentire ai propri giovani di spendere i propri talenti qui e ora, disegnando concreti e approfonditi progetti di sviluppo. Intendiamo confermare l’aspirazione alla vita e la volontà di famiglie e di popolazioni così pesantemente segnate cinquant’anni addietro e che, tuttavia, hanno trovato e trovano, in sé, le forze necessarie a sconfiggere un evento che sembrava pretendere rassegnazione…
Nei giorni scorsi alcuni sindaci del Belìce hanno detto: stiamo costruendo il futuro. Questa affermazione non è soltanto un messaggio di rassicurazione ma manifesta orgoglio protagonista, determinazione per lo sviluppo della vita di queste comunità, convinzione di poter superare, con il necessario sostegno della comunità nazionale, le difficoltà che rimangono nel presente. Quelle parole manifestano ragionevole, fondata fiducia nel futuro, ha concluso il capo dello Stato.