Ascolto il silenzio della città, irreale e immaginifico, surreale e inaudito, ma allo stesso tempo verità incontrovertibile.
La città non è più voce rumorosa e sottile, ciarliera e scostante, contemporanea e antica al tempo stesso, ma è muta e sola mentre calpesto il suo suolo e osservo i colpi del terremoto inferti alle mura delle case e dei palazzi.
L’erba cresce già tra il selciato dei vicoli stretti sotto la Piazza, lungo il muro dei Filippini accanto al Teatro, vegeta e prospera lungo Via Sallustio, luogo dove ho vissuto parte della mia vita.
Mentre cammino penso di aver perduto per sempre i luoghi della mia vita passata, quelli incardinati nell’anima: legami complessi, stratificati, pieni di sentimento.
Le strade sono vuote la gente si è dispersa, è angosciata e smarrita lontana dalle case evacuate, dalle mura antiche, dalle piazze vuote, dalle chiese, dalle botteghe intanto che mi reco in un luogo sempre destinato alla memoria ed alla cultura: la Biblioteca Provinciale.
Patrimonio culturale della comunità e componente primaria per la valorizzazione immateriale per gli individui e per la storia della comunità stessa attraverso una trasformazione continua che lega le generazioni tra loro.
La salvezza del patrimonio va organizzata attraverso il trasferimento dei libri, dei manoscritti, degli incunaboli e il recupero mi vede in prima linea mentre salgo la scalinata martoriata dal sisma.
Il momento peggiore della giornata è la sera, quando con l’imbrunire sovviene l’ansia, mia compagna immancabile dopo il terremoto.
Al tramonto la città delle case, delle vie e delle piazze precipita nel buio assoluto, vivo il dramma dell’oscurità, l’assenza di ogni luce è come morire un po’.
Questa sensazione mi rende la percezione del presente incerto ed inquieto anche quando durante il giorno lavoro per il recupero del patrimonio artistico.
Questi giorni frenetici si stanno avvicinando alla fine dell’anno del terremoto, verso il Natale, il primo Natale dopo il sisma.
La gente si sta riorganizzando, sistemando, sta allestendo la propria precarietà al di fuori della città antica, quella riconosciuta, quella dimensionata secondo regole urbanistiche e di buon senso e stabilisce nuovi principi, rapporti ambientali e umani disorganici, dispersivi e alienanti, ai quali le Istituzioni non sanno porre alcun rimedio.
Sta nascendo la città delle “casette” in legno fai da te: ripari provvisori “nati per una notte” che si trasformeranno in esplicita e permanente assenza di regole: dalla necessità del terremotato alla furbizia dell’uomo.
Questo è ciò che penso durante il mio impegno attraversando la città e il territorio in veste di Assessore alla Ricostruzione dei Beni Culturali, carica formalizzata a metà dicembre.
In questa veste visito la Basilica di Collemaggio che sta per essere riaperta al culto per la messa di Natale: “allestita” per affidare all’Avvento il senso della ri-nascita.
Avvento, “venuta” che per noi assume il significato di aspettativa e speranza dove la felicità dell’Attesa, per dirla con Leopardi, è più importante della festa.
È con questo sentimento che arrivo davanti alla facciata di Collemaggio, la notte Santa di Natale.
La messa della mezzanotte si avvicina e la chiesa già trabocca di fedeli, officia mons. Molinari arcivescovo metropolita dell’Aquila.
Uomini e donne riuniti dentro la chiesa, simbolo e paradigma della ricostruzione, in un’assemblea comunitaria tesa non solo all’incontro con il mistero, ma proiettata verso un cammino di speranza e rinascita.
Tra le mura antiche fasciate di puntelli e sotto un tetto che lascia vedere il cielo di mezzanotte, una società dispersa nelle angosciose periferie, nelle nuove “casette” della Protezione Civile, intorno ai centri commerciali, immersa in non luoghi, si ricompone nella Basilica per la Messa di Natale.
Questo è l’animo che mi accompagna in chiesa, riconosco tanti presenti e li spunto, nella mia memoria di sopravvissuto, come un infinito mazzo di carte mentre penso: “ ci sono, sono tornati, non abbandonano la città, ci riconosciamo, siamo qui a celebrare”.
Sono venuto per affidarmi a Dio, ma ho trovato anche gli uomini e le donne: la mia gente.
La messa incomincia carica di attesa per le parole del Metropolita e intrisa di significato, tutti consapevoli di ritrovarsi nel luogo privilegiato dagli aquilani per l’incontro con il divino, quando una scossa di terremoto ci rammentò che eravamo ancora immersi nella paura.
La copertura posticcia oscillò assecondando il tremore convulso dell’ancor prezioso impiantito del luogo, nel breve tempo che lo stridore sinistro delle impalcature e il sordo boato di fondo fermarono per un istante il Ministro officiante: “fermi, fermi tutti… – tuonò, le braccia protese e le palme aperte quasi a contrastare il sisma – sta passando” e noi tutti rassicurati e oramai abituati a riconoscere l’intensità, per le tante esperienze sul campo, guardandoci intorno e sopra e guardando il Vescovo ci ricomponemmo e, immobili, voltammo le spalle alla paura.
Le scosse sono continuate nel tempo, ma oramai avevamo recuperato la certezza di esserci, di aver impedito alla paura di sovrastarci, di poter resistere e ricominciare a pensare e ad agire come un corpo unico.
Questo ha consentito il recupero ed il restauro della chiesa di Collemaggio e della ricomposizione del Parco adiacente, che grazie alla donazione dell’Eni, sono tornati nella disponibilità della città e della sua gente.
*di Vladimiro Placidi
Rappresentante unico per il Comune nel Comitato Tecnico ENI-Comune dell’Aquila per il progetto di restauro della Basilica di Collemaggio