Se facciamo accelerare le Regioni che già oggi stanno avanti è naturale che le diseguaglianze aumenteranno ancora di più e quindi la fuga al nord dei pazienti non potrà che crescere, prevedeva qualche giorno fa Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, rispetto alla riforma dell’autonomia differenziata approvata ieri dal Consiglio dei ministri, su proposta del ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli. Non si torna indietro, il Parlamento dovrà valutare bene, avvisa. Le tre Regioni che oggi incassano più fondi per curare i pazienti del sud e cioè Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono anche tra le cinque Regioni che erogano meglio i Lea, i Livelli essenziali di assistenza, garantendo meglio le cure.
Le forme di autonomia richieste rischiano di sovvertire gli strumenti di governance nazionale del Servizio sanitario che dopo il Covid andrebbe invece accentrata. Penso alle richieste di cambiare il sistema tariffario o quello di rimborso o di remunerazione e dei ticket o la gestione delle Asl, ha spiegato Cartabellotta al Sole24ore. E poi ci sono le richieste come quelle del Veneto, che vorrebbe gestire in totale autonomia i contratti ai medici e per la sanità integrativa, che rischiano di favorire non solo una migrazione di pazienti ma anche del personale sanitario se ci fossero stipendi più alti.
Il ddl approvato ieri è composto da 10 articoli e prevede che l’attribuzione delle funzioni può avvenire solo dopo la determinazione dei Livelli essenziali di assistenza, che saranno definiti con Dpcm entro un anno, con relativi costi standard e fabbisogni standard uguali in tutto il Paese. In altre parole non si potrà più sperperare?
Secondo il presidente Gimbe a quasi sei anni dal Dpcm che ha istituito i nuovi Lea le diseguaglianze regionali, in termini di esigibilità di prestazioni e servizi a carico del Ssn, non dipendono solo dalle capacità di erogazione delle Regioni, ma affondano nell’impianto istituzionale di aggiornamento e verifica dei Lea. Un impianto che richiede una profonda revisione di responsabilità, metodi e strumenti, perché l’esigibilità di servizi e prestazioni sanitarie in tutto il territorio nazionale non rimanga solo sulla carta.
La sanità è un pilastro fondante della nostra democrazia, aveva ammonito presentando il 5° Rapporto sul Servizio sanitario nazionale, proponendo invece un rilancio e un approccio One Health, cioè la salute al primo posto in tutte le politiche centrali nazionali e un approccio integrato perché la salute dell’uomo, degli animali, delle piante e dell’ambiente, ecosistemi inclusi, sono strettamente interdipendenti. Un rilancio che il nostro Paese merita e che è in grado di realizzare per garantire il diritto costituzionale alla tutela della salute a tutte le persone. Un diritto fondamentale che, silenziosamente, si sta trasformando in un privilegio per pochi, lasciando indietro le persone più fragili e svantaggiate. Perché se la Costituzione tutela la salute di tutti, la sanità deve essere per tutti.
Ma anche istruzione; tutela dell’ambiente, ecosistema e beni culturali; rapporti internazionali e con l’Ue; commercio estero; tutela e sicurezza del lavoro; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; alimentazione; Protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; reti di trasporto e di navigazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; finanza pubblica e sistema tributario; promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito; enti di credito fondiario e agrario.
Tutte materie attribuibili alle Regioni e indicate ai commi 2 e 3 dell’articolo 117 della Costituzione, e chi sa come andrà a finire.