La storia di Paola Clemente, bracciante agricola morta di lavoro in Puglia il 13 luglio per 27 euro al giorno è una brutta storia. Che ha fatto scalpore dopo il clamore mediatico, per cui è stato aperto un fascicolo dalla Procura, riesumata la salma, disposta l’autopsia prevista per ieri e presupposto l’omicidio, per una donna che si alzava alle due del mattino per andare nei campi, in cui restava con le braccia alzate per dodici ore, per togliere gli acini più piccoli ai grappoli d’uva per farli belli. Il caporalato è mafia dice il ministro, dal guadagno reale si toglie la parte che tocca al caporale, lo sanno tutti. Nel barese e nel Salento volano bombe, vige l’omertà e la violenza, come a Nardò, nella stessa terra della pizzica e del turismo ammassato che nei mesi più caldi si accontenta di un centimetro di sabbia per restare ad ogni costo, bagnarsi e caricarsi di sole. Penso ai recenti casi di cronaca per cui in questa stessa estate due cadaveri, in due spiagge diverse, sono stati ignorati per ore dalla spensieratezza dei vacanzieri, ritrovata un attimo dopo aver liberato la spiaggia a seguito della segnalazione di qualcuno, come la leggerezza di chi nuota nelle acque caraibiche del leccese, mentre a pochi chilometri qualcuno muore di lavoro per quattro soldi. In Puglia la manodopera arriva per il 70% con l’intermediazione dei caporali, i sindacati denunciano che gli extracomunitari non hanno il contratto, ci fu una rivolta l’anno scorso e ancora qualche anno fa contro lo sfruttamento, ma non se n’è parlato più, Paola Clemente aveva un contratto con un’agenzia interinale, era assicurata e per i sindacati non c’erano problemi di sfruttamento, il caporalato è stato introdotto come reato nella legge italiana con l’articolo 603 bis del codice penale, per cui chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, è punito con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. Un reato introdotto solo nel 2011, mentre le aziende agroalimentari continuano a procurarsi la manodopera coi caporali lavandosene le mani.