Questa nota vuole essere solamente una riflessione pacata sulla ricomposizione urbana ed architettonica del Monastero della Beata Antonia duramente colpito, nella parte più antica, dal sisma del 2009.
La ricostruzione della porzione moderna che insiste su via Sallustio è divenuta, negli ultimi mesi, materia di discussione sui giornali e sui social per approdare infine ad una proposta tecnico economica del Comune dell’Aquila guadagnando così un rilievo programmatico nientemeno che all’interno del così detto PNRR.
Desidererei con questa nota tentare di raccontare brevemente il significato di quel manufatto, ora demolito, in calcestruzzo armato situato su via Sallustio che sostituì, a distanza di decenni, l’aliquota muraria antica abbattuta con lo sventramento della medesima via nell’era fascista.
Credo che anche per un manufatto storico architettonico, sia civile che religioso, si possa parlare di “identità”: cioè quelle peculiarità di volumi, scansioni, decorazioni e caratteristiche che ne determinano la propria originalità, tipicità e non riproducibilità e che l’innalzano ad opera d’arte.
Il soggetto, la forma e il contenuto sono le categorie che necessitano per definire l’opera d’arte.
Prendo in esame, in questo caso, solo la forma di questo convento trecentesco (chi volesse conoscerne la storia può consultare Orlando Antonini: Architettura Religiosa Aquilana) che recita molteplici significati: urbano, artistico, estetico, funzionale e spirituale.
La forma planimetrica conventuale si compone sempre di due moduli distinti e connessi: la chiesa e la parte residenziale e funzionale.
La chiesa occupa sempre un lato del chiostro.
Il chiostro ovvero il claustrum è il perno o nucleo di tutto il complesso conventuale o monastico e da esso dipartono gli ambienti funzionali alla vita conventuale: refettorio, forno, cucina, magazzini, biblioteca e quanto altro con varianti a seconda dell’Ordine religioso di appartenenza.
Il claustrum è un luogo chiuso, dotato di alte mura, impermeabile alla vista esterna, un rifugio come la stessa derivazione etimologica di clausura ci certifica.
La clausura è una fuga a saeculo, una rinuncia al mondo e un ritiro “all’ombra del chiostro”.
Il chiostro è necessariamente quadrilatero e porticato su tutti i lati, alle volte porticato anche al piano superiore.
I corridoi del chiostro sono coperti e lo spazio claustrale è destinato alla lettura sacra ed alla preghiera.
Il Convento della Beata Antonia non sfugge a questo stigma, ma ne è un esempio identitario e qualitativo.
Nel 1941 a causa di una visione urbanistica e costruttiva pseudo modernista fu operato uno sventramento della via, allora chiamata Vicolaccio, che abbattè parte del Convento e la parte settentrionale del chiostro lasciando la struttura praticamente monca.
Tra gli anni 60/70 del secolo scorso fu riedificato, da parte delle suore, il compendio demolito attraverso una struttura come sede abitativa in calcestruzzo armato, che ricompose la chiusura planimetrica, ma senza riformulare i lati porticati del chiostro.
Chiesa e chiostro sono stati nel tempo visitabili in fasi alterne e mi colpisce lo stupore di alcuni cittadini davanti a questo monumento già oggetto di studi e ricerche.
Ancor di più mi stupisce la proposta di non riedificare la parte su via Sallustio, quella ricostruita dopo l’abbattimento del 1941 per lasciare a vista ciò che è nato per essere coperto.
La trovo una proposta alquanto bislacca per non sottolineare la sua antistoricità ovvero un ossimoro architettonico.
Non ci sono dubbi che la proposta nasce in perfetta buona fede, ma una riflessione storico architettonica, razionale e in linea con le concezioni e linee guida del restauro non guasta.
Pensare ad una valorizzazione della struttura dopo aver salvato la chiesa che è in pessime condizioni e che conserva un ciclo di affreschi del cinquecento del pittore Francesco da Montereale è sacrosanto, pensare a rendere fruibile quella parte di monumento è altrettanto giusto, ma è altrettanto necessario percorrere strade intellettualmente valide senza incorrere in pasticciacci improvvisati.
*di Vladimiro Placidi