Continuiamo ad abitare case e città costruite su idee di ‘bella vita’ ormai superate. La resilienza architettonica di questi spazi può anche essersi adattata alle nostre mutevoli esigenze nel tempo, ma essi hanno ormai raggiunto i limiti della loro flessibilità.
Così Hashim Sarkis curatore della 17a Mostra internazionale di Architettura organizzata dalla Biennale di Venezia dal titolo How will we live togheter?, aperta al pubblico da sabato 22 maggio a domenica 21 novembre 2021 ai Giardini, all’Arsenale, e a Forte Marghera, con una pre apertura nei giorni 20 e 21 maggio. L’evento avrebbe dovuto svolgersi l’anno passato.
La politica e le politiche stabiliscono i processi per la vita collettiva, ma le persone si riuniscono nello spazio e lo spazio contribuisce a plasmare e a trasformare il contratto sociale stabilito.
La nostra vita familiare s’è evoluta e diversificata, ma continuiamo a replicare fino alla nausea il modello della casa familiare nucleare insieme agli intrinseci pregiudizi di gerarchia e privacy.
Le nostre relazioni sociali sono diventate più diffuse e diversificate, e tuttavia lo spazio di comunità è ancora incentrato su valori associativi che tendono a essere più chiusi in se stessi e claustrofobici.
Le nostre città da tempo si sono espanse oltre il modello centralizzato di uso del territorio e gruppi di reddito separati, ma spesso continuiamo a pensare alla città ideale come a una città con un centro, gerarchie sociali organizzate spazialmente e con le spalle rivolte al rurale e alla natura. Soprattutto siamo diventati sempre più consapevoli dei pericoli globali delle nostre pratiche spaziali compresi i trasporti e i controlli ambientali e continuiamo a vivere come se fossimo soli su un pianeta passivo dotato di risorse infinite. Il cambiamento climatico pone nuove sfide all’architettura, sul ruolo dello spazio pubblico nelle recenti rivolte urbane, sulle nuove tecniche di ricostruzione e le forme mutevoli dell’edilizia collettiva; sull’architettura dell’educazione e l’educazione dell’architetto sul rapporto tra curatela ed architettura.
Hashim Sarkis, architetto libanese, pone questa domanda/quesiti ai colleghi partecipanti da tutto il mondo. Immaginare spazi in cui vivere insieme. Insieme tra esseri umani, come nuovi nuclei familiari, come comunità emergenti che reclamano equità, inclusione ed identità spaziale; oltre i confini politici per immaginare nuove geografie di associazione e infine come pianeta che sta affrontando crisi che esigono un’azione globale affinché tutti noi continuiamo a vivere.
Sarkis vede la collaborazione degli architetti, custodi del contrato spaziale, con professionisti e attori, costruttori, ingegneri e artigiani, ma anche politici, giornalisti, esperti in scienze sociali e cittadini comuni. La nostra professione ha il compito di progettare spazi migliori per una vita migliore. Abbiamo visto potenti esperimenti di architetti che hanno sfidato le gerarchie familiari della casa unifamiliare e le segregazioni di genere proponendo progetti alternativi. Molte delle ragioni che pochi mesi prima della pandemia ci hanno portato a porre il quesito e cioè l’intensificarsi della crisi climatica, i massicci spostamenti delle popolazioni, le instabilità politiche in tutto il mondo e le crescenti diseguaglianze sociali ed economiche, tra le altre, ci hanno portato a questa pandemia e sono diventate ancor più rilevanti.
La Mostra comprende opere di 112 partecipanti da 46 Paesi diversi con una maggior rappresentanza da Africa, America Latina e Asia e uguale rappresentanza di uomini e donne.
E’ organizzata in cinque scale o aree tematiche, tre allestite all’Arsenale e due al Padiglione centrale: Among Diverse Beings; As New Households; As Emerging Communities; Across Borders; e As One Planet.
L’evento incrocerà il Festival Internazionale di Arte Contemporanea, conta 63 partecipazioni nazionali e 17 eventi culturali collaterali per un pluralismo di voci tipicamente caratterizzanti la Mostra, ed ancora Meetings on Architecture, incontri con architetti e studiosi di tutto il mondo.