Il terremoto di Aquila del 2 febbraio 1703 fu uno degli eventi principali di una serie di sequenze sismiche che si manifestarono nell’Appennino umbro reatino abruzzese tra il 1702 e il 1703. Nel corso del secondo millennio, quella del 1702/1703 fu una delle più gravi crisi sismiche dell’Italia centrale per numero di vittime, numero dei centri abitati distrutti o gravemente danneggiati, estensione dell’area di risentimento delle scosse.
I danni più gravi si registrarono in un’ampia Regione che si estende da Norcia (bassa Umbria) ad Aquila (alto Abruzzo) mentre danni minori o semplice percezione delle scosse furono registrati dalla Romagna fino a Napoli con danni importanti in diverse città come ad esempio Roma e Spoleto. Sul dettaglio dei danni di ciascun centro abitato così come per le conseguenze socio economiche di questi accadimenti è stato scritto molto e pertanto si rimanda ad apposita bibliografia. Per Aquila si possono ricordare, a titolo di curiosità, l’adozione dei colori civici nero e verde e lo slittamento dell’inizio del Carnevale al 3 febbraio, il giorno successivo alla Candelora, la ricorrenza del grave terremoto.
La scossa del 2 febbraio 1703 provocò oltre 2mila vittime ad Aquila, oltre 6000 considerando il contado.
Pochi giorni dopo il sisma giunse dalla capitale Napoli il marchese Marco Garofalo, incaricato dal viceré per la gestione della prima emergenza e contemporaneamente si decretava per la città la sospensione del pagamento delle tasse per i successivi dieci anni; il marchese rimase in città fino al mese di maggio dello stesso anno coordinando le operazioni di soccorso, l’abbattimento degli edifici pericolanti, lo sgombero delle strade principali dalle macerie, il ripristino dei forni per la produzione del pane e di altre funzioni essenziali.
Nelle stesse settimane si realizzarono 92 baracche in piazza del Mercato per ospitare le principali istituzioni civili e religiose nelle immediate vicinanze delle loro sedi distrutte, senza allontanarle dalla città; poco dopo il terremoto fu eletto il nuovo Camerlengo della città in quanto il predecessore, così come il vicario capitolare, era tra le vittime del terremoto.
Secondo quanto riferiscono le principali fonti storiche disponibili, la crisi sismica registrò un primo importante evento nell’Appennino umbro il 18 ottobre 1702 con una scossa di magnitudo momento (Mw) stimata in 5.2 con epicentro ipotetico a circa 5km a nord di Norcia. Seguirono alcuni mesi di ripetute scosse di minor entità fino all’inizio del 1703 quando cominciò la fase più violenta di questa serie di sequenze sismiche.
Il 14 gennaio 1703 un forte terremoto stimato in Mw 6.8 distrusse Norcia e il suo circondario così come molti centri della valle del Velino, in particolare Cittareale; parzialmente distrutti o gravemente danneggiati anche i centri delle aree di Campotosto e Montereale. Gli effetti massimi vengono stimati intorno all’undicesimo grado della scala Mercalli, la distribuzione geografica dei danni fa supporre una direttrice di propagazione del terremoto verso sud.
Danni importanti si registrarono anche ad Aquila con lesioni e crolli parziali ed isolati sia di edifici privati sia di alcuni campanili. Danneggiata anche Spoleto mentre danni rilevanti ma meno gravi si registrarono a Roma.
Il 16 gennaio seguì una replica, con epicentro non localizzato ma con effetti massimi stimati all’ottavo grado Mercalli, che provocò altri crolli nell’area di Norcia e ulteriori danneggiamenti nei centri al confine umbro abruzzese. Ancor oggi, camminando per le vie di Norcia, come di altri centri dell’area interessata, è possibile vedere i segni indiretti di questi e di altri terremoti: tra gli elementi che risaltano maggiormente, oltre alle testate delle catene sui muri degli edifici, si notano costruzioni basse frequentemente con muri a scarpa dallo spessore e dalle pendenze molto pronunciate, come ad esempio i muri perimetrali della cattedrale di Santa Maria Argentea a Norcia; altro indice della ricostruzione sono gli interni settecenteschi con copertura lignea delle chiese innestati negli involucri più antichi risparmiati dai crolli, soluzioni che richiamano molto da vicino, anche nel linguaggio, quelle adottate nella ricostruzione successiva al 1703 di molti edifici di culto della nostra città.
Dopo le scosse di gennaio, nonostante il quadro dei danni e il perdurare delle repliche, nella città di Aquila pare che non siano state adottate particolari precauzioni a differenza di quanto era accaduto durante la sequenza sismica del 1461 quando, sia prima sia dopo la scossa del 26 novembre, il vescovo Amico Agnifili e le autorità civili cittadine avevano provveduto ad allestire ripari di emergenza in baraccamenti situati nelle piazze principali della città e nelle aree libere dentro le mura; ciò aveva permesso di limitare il numero delle vittime.
Non accadde così nel 1703, periodo in cui Aquila, così come la maggior parte d’Italia, aveva alle spalle oltre un secolo e mezzo di occupazione spagnola che aveva isolato la città dal suo contado e l’aveva oppressa economicamente privandola degli antichi privilegi fiscali sottoponendola ad una pesante tassazione; al governo delle Arti, espressione di una città economicamente dinamica, era subentrato un governo dei Nobili che accompagnò un mutamento dell’economia locale: da quella produttiva, mercantile e artigiana, a quella di rendita che fondava la propria ricchezza sulle proprietà terriere e immobiliari, a beneficio di un ristretto ceto nobiliare che aveva acquisito o ampliato i propri possedimenti a seguito della suddivisione ‘feudale’ del contado effettuata dagli occupanti spagnoli.
Sempre nel 1703 la sede vescovile aquilana era vacante dopo l’allontanamento del Vescovo dalla città ed era retta da un Vicario Capitolare. In questo quadro di precarietà materiale, politica e socio economica si verificò la scossa di terremoto che il 2 febbraio 1703, intorno alle ore 12, andò a colpire una città resa più vulnerabile dalle precedenti scosse del 14 e del 16 gennaio precedenti, sorprendendo centinaia di persone radunate nelle chiese per le celebrazioni della Candelora, secondo alcune fonti si contarono circa 600 vittime nella sola chiesa di San Domenico.
L’epicentro ipotetico del terremoto è stato localizzato nell’alta Valle dell’Aterno, nell’area tra Montereale e Pizzoli, con probabile propagazione verso sud est, potenza stimata in Mw 6.7 ed effetti massimi intorno al decimo grado della scala Mercalli.
In base alla magnitudo momento si può parlare di un terremoto quattro volte più potente sia di quello del 1461 sia di quello recente del 2009.
L’impatto sul territorio fu molto pesante e si andò a sommare a quello del terremoto di Norcia di 19 giorni prima: i centri tra Amatrice, Cittareale, Posta, Borbona e Montereale, già semidistrutti dalle scosse di gennaio, vennero rasi al suolo così come Pizzoli, Barete ed altri castelli dei dintorni vicini all’epicentro. Nella città di Aquila, semidistrutta dall’evento, oltre al crollo di gran parte delle chiese, sono stati stimati crolli totali per il 35% degli edifici privati, con danni particolarmente concentrati nei Quarti di San Giovanni o San Marciano e San Pietro. Importanti danni si registrarono nella città di Roma come raccontano le cronache dell’epoca, nel reatino, ancora in Umbria, e nell’Abruzzo costiero.
“[…] rovinò buona parte della città [Aquila, n.d.r.], e fu veduto in più luoghi aprirsi la terra […] la terra continuamente esalava puzzolenti vapori, l’acqua nei pozzi cresceva e gorgogliava, gli acquedotti della città rimasero infranti, e per 22 ore la terra si sentì muovere”. (Anton Ludovico Antinori, Annali).
“Infatti ricordiamo qui il funesto tremuoto del 2 febbraio del 1703 in cui la città di Aquila fu quasi interamente adeguata al suolo dalla più tremenda e dalla più irresistibile di tutte le naturali violenze. E veramente era stupore grande il vedere ridotti a un masso di pietre e di aride ceneri i sontuosi Tempî con tante cure e tanta profusione di ricchezze edificati; e con essi i monasteri, i conventi, gli ospizii, i campanili, le case, i palagî, i porticati: ogni cosa insomma in indicibile precipizio. Potrei aggiungere a questo la morte di tremila e più cittadini, e gli altri tutti in tanto terrore che, disperatamente fuggendo, si trassero dolorando il loro infortunio in mezzo agli aperti campi. E n’avean ben donte; che la terra scossasi violentemente alle ore diciotto, continuò a muoversi fino alle ore 16 del giorno susseguente”. (Signorini, 1868; vol. II, pp. 133-134).
“La città dell’Aquila fu, non è; le case sono unite in mucchi di pietra, li remasti edifici non caduti stanno cadenti. Non so altro che posso dire di più per accreditare una città rovinata”. (Marco Garofalo, Marchese della Rocca, Lettera al Viceré di Napoli).
Le righe estratte dalla lettera del marchese Garofalo, indirizzata al Viceré per informarlo della situazione, lasciano immaginare con poche parole come potesse presentarsi la città di Aquila ai suoi abitanti e a chi vi giungesse nelle prime ore e nei primi giorni dopo la scossa principale del 2 febbraio 1703. Tuttavia è importante evidenziare la capacità di reazione della popolazione che fu la principale forza che determinò la rinascita della città, nonostante la mancanza di una forte autorità pubblica e i limiti materiali, economici e tecnologici dell’epoca e nonostante il tentativo, dall’esterno, di incentivare l’abbandono della città da parte dei superstiti a favore di altri territori confinanti, come hanno sottolineato recenti ricerche storiche.
L’abbandono non si verificò e la determinazione degli aquilani dell’epoca ha garantito un seguito alla storia della città.
*di Mauro Rosati
Archeoclub d’Italia – Sede L’Aquila