21 Mar 23

Santa Maria del Carmine, dimenticata

Tra i monumenti da salvare, la chiesetta di Santa Maria del Carmine, in via Assergi, in pieno centro storico all’Aquila, è uno spettro di pietre abbandonate dal 6 aprile 2009, tenute su dall’intervento dei Vigili del Fuoco per scongiurare ulteriori crolli, continua a rimanere in piedi per miracolo, considerate le lesioni profonde negli archi trasversali, nelle pareti laterali e nelle volte con crolli localizzati. Danni diffusi, con lesioni profonde, all’intero corpo di fabbrica sia nell’apparecchiatura strutturale che decorativa con particolare concentrazione nella zona absidale, informa ancora dopo 14 anni culturaebeni.it, il sito dell’Arcidiocesi, nato per sensibilizzare la collettività al recupero del nostro patrimonio.

Di origini duecentesche, la chiesa che i castellani di Assergi concessero di edificare in uno dei punti sommitali della città deve, fino al Seicento, considerarsi dominatrice spaziale del brano urbano in cui si inserisce. Brano urbano che oggi, al contrario delle origini, può vantare caratteri di singolare ‘bellezza’, in un’ambientazione piuttosto ‘gelosa’ e ‘protetta’ al di là della cancellata che delimita fermamente il sagrato dalla prospicente via Assergi. Qui, nell’intimità di siffatta ambientazione, il risultato è quanto mai straordinario, e il momento urbanistico, è tra i più significativi della storia aquilana, racconta l’Arcidiocesi.

Quanto si accenna, relativamente al sito, non ha prodotto nei secoli alcun risultato degno del potenziale geo-urbanistico di una simile posizione, tantoché nel XV secolo non si riuscì nell’intenzione di edificarvi la Basilica di San Bernardino, nonostante la presenza di una massiccia torre – segno emergente, peraltro mozzata nel 1557 per non intralciare il tiro delle artiglierie del Forte spagnolo – denunciasse un interesse strategico sin dai secoli precedenti.

L’impianto originario, all’esterno denunciato nelle forme della facciata quadrangolare in pietra concia – oggi primo ordine della fronte principale – si organizzò dimensionalmente in un rettangolo di lunghezza non superiore a 8 canne per una larghezza, ed un’altezza, non superiori alla metà, nel pieno rispetto delle disposizioni urbanistiche degli Statuti della Città.

La medioevale Santa Maria di Assergi, divenuta Santa Maria del Carmine a seguito della cessione all’Ordine dei Carmelitani nel 1609, segue una vicenda edificatoria del tutto analoga ad altre chiese intra moenia, in primo luogo per l’alternanza dei numerosi eventi sismici cui la città fu sottoposta nel corso dei cinque secoli che separano gli anni della fondazione da quelli dell’intenso restyling settecentesco, per giungere oggi alle fasi di una nuova necessaria ricostruzione a fronte del danno registrato col terremoto del 6 aprile 2009.

Una svolta decisiva da un punto di vista architettonico si registra nel XVII secolo allorché i frati carmelitani, intrapreso un intensivo programma di ammodernamento dell’intero complesso con la costruzione del convento, apportarono sostanziali modificazioni alla fabbrica sacra innalzando, nel 1637, il coro ottagonale voltato.

All’espansione planimetrica dell’impianto seguì un’importante revisione dei volumi grazie al prolungamento verticale delle pareti per un’altezza circa pari al doppio delle preesistenti, e la realizzazione della fronte principale, coronata a falde, di cui l’originaria facciatella costituisce l’ordine inferiore.

 Relativamente a quest’ultima, è immediato leggere i caratteri compositivi tipici della maniera aquilana dei secoli XIV e XV: dall’impostazione geometrica dell’impaginato lapideo al portale romanico – aperto al di sotto della cornice marcapiano e del quale risaltano i motivi scultorei dell’Agnus Dei al centro di gruppi fogliari di vite ed acanto ad arricchire l’architrave sorretto da colonnine tortili – fino ai segni della ricucitura in pietra concia dell’invaso occupato dall’antico rosone, in luogo del quale viene aperta la grande finestratura settecentesca all’ordine superiore.

L’interno secentesco non è immediatamente leggibile nei suoi caratteri in quanto la chiesa, benchè non crollò nel 1703, necessitò di una serie di rifacimenti e consolidamenti strutturali che, ancora oggi, costituiscono le fondamentali dell’involucro. Una robusta fodera muraria fu innalzata perimetralmente a rafforzare le pareti, dispiegandosi ritmicamente nell’alternanza di elementi plastici; primi fra tutti i grandi corpi delle paraste corinzie, reggenti la grande trabeazione che corre a mezz’altezza a legare l’intera trama parietale, eretti per l’intero perimetro fin nell’invaso del coro senza soluzione di continuità. Il risultato è quello di un’intensa drammatica plasticità, a favore della quale depone il sapiente chiaroscurale restituito dai finti marmi bruni delle paraste stagliantisi sul candido neutro dei fondi cui si aggiunge la preziosità degli altari lapidei primo-seicenteschi incorniciati entro le arcate che scandiscono il partito architettonico dei fianchi laterali della nave. Arcate il cui spessore lascia leggere, inequivocabilmente, la consistenza della poderosa muratura settecentesca addossata alla preesistente.

Un siffatto sistema parietale plastico riproduce, in definitiva, quello strutturale del Cipriani nel San Massimo, seppur con le dovute attenuazioni tensionali rispetto all’impianto basilicale in cui resta inscritta la cattedrale, lasciando al Carmine uno dei più significativi casi di riprogettazione settecentesca aquilana di chiesa a navata unica, nonostante il tentativo di una radicale riconfigurazione sul modello gesuitico non abbia conosciuto piena conclusione.

Il poderoso involucro parallelepipedo, rifinito ad intonaco nel solo ordine superiore di facciata, è scandito sui fianchi dall’aggetto ritmico dei contrafforti in muratura a controspinta degli archi trasversali della nave che costituiscono l’ossatura strutturale di sostegno alla volta lunettata in orditura lignea e camorcanna.

La volumetria del corpo di fabbrica resta incisa in una scala metrica del tutto singolare; i rapporti proporzionali pianta-alzato restituiscono un edificio spiccatamente snello ove si legge il tentativo di una verticalità tutta spirituale che urbanisticamente introduce un punto di accumulazione espressiva nel brano circostante e il cui divenire, nel corso dei secoli, nulla ha sottratto di siffatta ‘presenza’ a scala urbana sul versate orientale della città.

Basta affacciarsi su via Assergi da corso Vittorio Emanuele II, a salire, nel centro storico che rinasce, per sentire ancora una volta il silenzio devastante dell’abbandono, dell’incuria e dell’indifferenza totale al recupero storico-architettonico della nostra storia. Neanche piazzetta del Carmine esiste più.