16 Apr 22

Polo elettronico, affaire Accord Phoenix

Come ha correttamente annotato la Guardia di Finanza nell’informativa agli atti, supportata da incontrovertibili risultanze probatorie, le conversazioni telefoniche intercettate hanno permesso di acclarare come tutti gli attori di questa vicenda siano stati ispirati da una logica di mero ‘affare’, più personale che imprenditoriale, amministrando secondo criteri tutt’altro che economici dell’impresa, scrivono i giudici della Corte dei Conti, nella sentenza per un danno erariale da 5mln di euro ai danni del polo elettronico. Men che meno sono emersi, quali punti cardine a cui fare riferimento nel prendere decisioni, gli interessi della collettività, degli operai e di una città che comunque si è mostrata fiduciosa nei nuovi investitori, agevolando l’iter per la percezione di incentivi, a fondo perduto, per oltre 10milioni di euro.

E’ l’affaire Accord Phoenix spa, la società che avrebbe dovuto realizzare nel post sisma un impianto per lavorare 35mila tonnellate di rottami elettrici l’anno, pari a cento tir al mese, da trasformare in lingotti di stagno, zinco ed altri materiali non ferrosi da vendere sul mercato per un fatturato previsto di 33milioni 650mila euro l’anno, più gli introiti dell’energia elettrica prodotta, in 7 mega watt, ma a seguito della condanna di questi giorni, per danno erariale, dovrà restituire i primi due acconti pubblici pari a circa 5mln di euro.

Il finanziamento pubblico, si legge nella sentenza, definito testualmente da uno dei tre soci Pezzoni, ‘un equity tramite Invitalia di circa 13mln di euro’, approvato grazie all’attività dei due soci italiani, sembra verosimilmente costituire o precostituire il margine finanziario necessario a remunerare l’‘affare’ in favore di coloro che erano intervenuti a vario titolo nell’operazione. Chi erano i soggetti da remunerare?

E’ da chiarire che questo è un giudizio di responsabilità erariale, emesso a seguito delle indagini della Guardia di Finanza dell’Aquila, nell’ambito di un procedimento penale avviato dalla Procura della Repubblica. Dei due procedimenti penali aperti, uno si è chiuso con la condanna del legale rappresentante Shankar, che si dimise, per illecita gestione di rifiuti pericolosi, e l’assoluzione di altri due amministratori, l’altro, per indebita percezione di erogazioni pubbliche, anche nei confronti della persona giuridica, è ancora pendente e rischia appunto di travolgere, penalmente, tutti coloro che sono intervenuti a vario titolo nell’operazione. Tutti coloro.

Il collegio giudicante composto dal presidente Mario Nispi Landi, e dai giudici Paola Lo Giudice e Gerardo de Marco, definisce il progetto di ripresa dell’ex polo elettronico un’operazione. A cui doveva seguire una remunerazione.

Con singolare coincidenza, argomenta la sentenza, il finanziamento poi definitivamente concesso da Invitalia coincide quasi perfettamente con la differenza di valore sovrastimato, come da relazione tecnica allegata all’informativa della Guardia di Finanza, dei macchinari e del software impiegati, un valore dichiarato dalla Accord Phoenix in poco meno di 20mln di euro, ma stimato dal consulente della Procura in poco meno di 10mln di euro. Doveva uscire da qui la remunerazione? Dalla sovrastima?

I giudici scrivono di operazioni finanziarie opache e contorte, quelle che portarono alla costituzione e all’avvio di Accord Phoenix, e culminano con lo spostamento dei nuovi soci, verosimilmente coincidenti con i vecchi, da Cipro a Malta e Isole Cayman, per schermare i reali proprietari. L’acquisto del know-how, pareva più un modo di giustificare transazioni finanziarie con società estere, che un modo di acquisire le necessarie competenze di innovazione nel settore del riciclaggio dei rifiuti elettronici. Allarmi denunciati quotidianamente dagli organi d’informazione nel post sisma, ma del tutto ignorati dall’allora amministrazione civica e dalla sua maggioranza di governo.

Nessuno di noi è capace, si legge in uno stralcio delle intercettazioni, in riferimento alle competenze dei tre soci e degli assunti nel trattare rifiuti pericolosi e non. Il personale stesso, assunto di fretta, talvolta con criteri clientelari, anche al fine di non sforare le scadenze e non perdere l’attesa contribuzione pubblica, era messo al lavoro senza adeguata formazione e per di più senza adeguate protezioni, scrivono i giudici, non era posto in condizioni di fornire un apporto qualificato all’attività aziendale ed era esposto a rischi sicurezza.
Ma la sicurezza dei lavoratori non interessava tanto la compagine societaria, quanto piuttosto il fatto che arrivassero i controlli.

 

*di Rosario il Libertario